Autoanalisi

Ricordare per poter comunicare.Quello che abbiamo vissuto senza pentimenti e capriole, nè in politica, nè in privato. Molto amore, molta passione ed una spruzzata di fortuna, per noi che avevamo vent'anni in quegli anni.

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sabato 31 marzo 2007

Felicità

La nostra felicità non dipende soltanto dalle gioie attuali,
ma anche dalle nostre speranze e dai nostri ricordi.
Il presente si arricchisce del passato e del futuro.
Émilie du Châtelet

Nella moderna società industrializzata, capitalistica e monoteistica, è dato per scontato che i momenti di felicità siano elementi di discontinuità nella vita dell’uomo. Che rappresentino, insomma, parentesi secondarie rispetto ad una vita che rimane ancorata alla filosofia stessa dell’insoddisfazione.
La necessità di stimolare l’individuo a consumare merce da una parte e l’esigenza di renderlo dipendente dai sensi di colpa dall’altra, sono così i pilastri sui quali, da secoli, si è pianificata la programmazione culturale dell’individuo.
E’ vero invece l’opposto.
La serenità, la felicità e la gioia, elementi organicamente fusi, sono continuamente presenti in noi stessi e nella nostra esperienza quotidiana e procedono parallelamente al trascorrere del nostro tempo vivente. A noi starebbe il riconoscerli, allineandoli senza soluzione di continuità su un percorso unitario, che dovrebbe rendere tutta la nostra vita serena, comunicativa, estroversa.
Il “momento felicità” è quell’attimo d’illimitata espansione in cui il nostro sentire entra in una dimensione d’armonia complessiva ed in cui il tempo è annullato, cosicché i nostri bisogni sono aboliti. Ma questo “attimo”, che noi avvertiamo come circoscritto, è limitato nel tempo soltanto rispetto alla sua discontinuità con il nostro vivere quotidiano, mentre diviene elemento indispensabile dell’insieme se lo colleghiamo, in maniera armonica, con i precedenti o i successivi “attimi”, tutti figli di un unico procedere unitario.
Facciamo un paio d’esempi: due amiche fanno della loro amicizia condivisa l’elemento portante del loro vivere in serenità; quando l’una va a trovare l’altra incinta, ne trae momenti di felicità, condividendo intellettualmente il suo stato ed istanti di gioia quando posando la mano sul ventre dell’amica avverte il movimento del nascituro.
Od anche: immaginiamo la nostra vita serena come il procedere di un torrente di montagna, saldo e sicuro nel suo alveo; a tratti si formano naturalmente delle pozze, dei piccoli bacini dove l’acqua tra l’ingresso e l’uscita appare apparentemente ferma, quelli sono i nostri momenti di felicità, apparentemente sempre uguali a se stessi, ma, contemporaneamente, costante e mutevole trasformazione della nostra serenità, attimi di pace che si creano e si disperdono, pur comunque provenendo da eguale fonte; il momentaneo raggio di sole che illumina quella superficie al transito di una nuvola, sarà il nostro istante di gioia.
Il sentimento caratteristico della felicità è dunque quello della compenetrazione con il tutto. Questo assorbimento, questi piccoli frammenti di felicità che irrompono in noi, invadono pure (o così dovrebbe essere) ogni momento della nostra esistenza, rendendocela cara. Accettato questo, possiamo comprendere anche come allora il tempo fluisca in modo uniforme, così da non permettere la percezione del suo continuo spezzarsi.
Ecco perché in tal modo gli attimi di felicità possono essere vissuti per se stessi e non avvertiti per la loro assenza, cosicché il tempo, psicologicamente, si allarga.
Esso, infatti, in questo senso è continuo, in lui non c'è elemento di rottura. Ogni singolo momento di felicità diviene sostegno e stimolo ad un più ampio piano, che prevede la serenità del nostro vivere.
Ripeto, soltanto se i singoli momenti di felicità vanno a far parte di questo disegno d'insieme potremo ottenere la possibilità di viverli come conquista e non come privazione.
Infatti, quando quei momenti, vissuti come sentimento illimitato della propria espansione personale, terminano, ci chiediamo: perché sono stato felice? Perché adesso lo sono di meno? Soltanto a quel punto, c’interroghiamo sulle condizioni in cui li abbiamo vissuti, nella speranza di potere rinnovare i requisiti per tornare in quest’espansione che si è sperimentata.
Ma pensare a tecniche “di conquista” è del tutto sbagliato se non si accetta di guardare il mondo non attraverso quei momentanei squarci di luce, ma attraverso la visualizzazione di un percorso di consapevolezza, che ci cali in una dimensione in cui la felicità e la serenità rappresentino elementi di normalità.
La questione appare difficile o, al meglio, non poco ingarbugliata.
Questo perché ci hanno abituato a sopportare le negatività della vita, ma non ci hanno insegnato a fare nostre le molteplici positività che la vita ci propone ogni giorno.
Un uomo o una donna felici, sereni, in pace con se stessi e con il mondo, sono elemento di profonda eversione per un mondo che vive di ricatti e d’apparenze, di minacce e di promesse non mantenute. Realizzarsi in questa vita attraverso l’effimero continuo consumo, fa coppia con la promessa di un’alternativa ultraterrena tanto mirabile quanto impalpabile.
E’ evidente che il percorso che porta ad una vita serena può essere influenzato negativamente o positivamente da molti fattori.
Innanzi tutto la salute nostra o dei nostri cari, una sana relazione di coppia o l’accettazione cosciente del vivere soli, un clima sociale che ci veda consapevoli e non al traino degli altrui interessi, ma anche rapporti responsabili verso i figli, un livello adeguato d’autostima, la capacità di mantenere la propria dignità tenendo saldi i propri principi etici.
Una vita serena è quell’insieme positivo che contiene tutti questi parametri, ma anche qualche cosa di più, un qualcosa che parte dal nostro interno è che rappresenta la sintesi inconscia delle esperienze del nostro passato e delle aspirazioni per il nostro futuro.
La ricetta per una felicità sicura esiste nella stessa misura di quella per una ricrescita folta dei capelli.
Ciò nonostante alcune piccole regole esistono, talmente banali che pochi le applicano.
Innanzi tutto basse attese, suggerimento ovvio, ma del tutto inapplicato in un mondo che vive esclusivamente d’attese le più alte possibili, create a bella posta per surrogare la realtà, difficile da accettare e da far accettare.
Ad attese reali con cui concretamente confrontarsi, andrebbe accoppiato un vero e proprio piano di vita. Un progetto che ci travalichi, che ci dia quel respiro universale che la nostra condizione odierna non ammette.
Pianificato questo –terza ed ultima regola d’oro- dovremmo lavorare ogni giorno in una politica dei piccoli passi, mantenendo costante la nostra fiducia in quello che facciamo, anche se, apparentemente, non ottiene risultato immediato e tangibile. Il progetto di vita, se in tal senso vissuto, può essere di tipo sociale o può toccare l’ambito della fede, sia questa “laica” o religiosa.
Tutti questi piani di lavoro divengono validi soltanto nella misura in cui la nostra partecipazione sia reale e costante nel tempo, cioè se noi, in quell’idea, confidiamo non soltanto come prospettiva per le generazioni a venire, ma anche come scuola di pensiero e d’azione per l’oggi. Condizione che ci permetterà altresì di rendere fattiva la nostra proiezione oltre il termine naturale della vita.
Per rimanere al sociale (al politico si diceva una volta, prima che la Politica fosse emarginata e la sottocultura politichese macchiasse tutto), è chiaro che se nella società esistono, com’esistono, dei nodi di miseria, di sofferenza, se perdurano condizioni che portano all'emarginazione culturale, la dimensione di un piano di comunità che allievi prima ed elimini poi, tali difficoltà, non può che far lievitare la felicità, nostra e di chi, con noi, condivide tali progetti.
Questo possedere in comune è incontro e non uso dell’altro ed è prolifico proprio perché elimina la possibilità del gettare via l’altro, condizione che avviene sempre quando, invece, non siamo disponibili ad arricchirci crescendo insieme.
Insomma, per restare alla storia della cultura, l’utopia della felicità è sempre esistita anche prima della rivoluzione marxista; riuscire ad eliminare dal mondo il dolore inflitto, cioè il dolore che gli uomini s’infliggono gli uni agli altri, ha provocato il bisogno della rivoluzione, il sovvertimento dello status, cercando di introdurre il concetto, filosofico prima e politico poi, del bisogno, per la specie, di una serie di regole di giustizia, necessità indispensabile per la sua stessa esistenza (a proposito a quando la fine dell’antropocene?).
Esiste, però, un tipo di dolore, nella vita, che, pur ammettendo di riuscire ad arrivare ad una situazione come quella concepita ed augurata dalle aspirazioni politiche, non si potrà mai eliminare; ed è il dolore naturale, la morte.
Rispetto a questo verrebbe da pensare che il concetto stesso di felicità sia negato.
Ma la felicità non è, come abbiamo detto, un elemento statico, ma è ricerca della conquista, della vittoria, dell’acquisizione, dell’accoglimento. In questo senso la maturazione provocata dal dolore genera felicità essa stessa, rompendo lo schema on-out, muta, trasforma, sostituisce al dolore ed alla privazione, la coscienza del nostro divenire storico, che travalica i limiti angusti del nostro vivere a tempo.
Noi utilizzeremo allora il Progetto per la nostra felicità, ma, contemporaneamente quello c’impiegherà come strumenti della propria realizzazione.
In questo sta il segreto ultimo della felicità: riuscire a far conchiudere il cerchio della vita, collegando, con senso logico, la nostra nascita alla nostra morte e viceversa. Riversando sui nostri figli (nostri in senso lato, appartenenti all’umanità tutta) le nostre certezze e le nostre speranze, le nostre esperienze e le nostre aspettative.

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