Ucci,ucci..sento odor..
Quando vado (o se volete, quando ritorno) a Firenze, faccio più o meno sempre le stesse strade e se non viaggio con il “pilota automatico”, cerco di rivedere i miei luoghi e di rinnovare le mie abitudini. Per questo l’altro giorno ho dovuto subire un colpo basso. Non è il primo, non sarà l’ultimo. Passo da Piazza Davanzati ed il bar dei miei vent’anni non c’è più.
Talmente non volevo crederci che ho continuato a passarci davanti una, due, tre volte. Ed invece era vero: il bar è sparito, anzi peggio, è stato trasformato in un ristorante per turisti.
Si badi bene, non ho niente contro i ristoranti e neppure niente contro i fast food o le paninerie o contro tutte queste spizzicherie che stanno nascendo e morendo da un giorno all’altro.
Mi brucia soltanto che questa città mutante si stia fagocitando a poco a poco tutti i miei ricordi. Sentimento per niente originale, penserete voi, ma vi assicuro che al di là delle apparenze, è un’emozione condivisa da sempre meno persone. Qualcuno, su questa lieve sofferenza, ha cercato, per altro spesso, di specularci, volendo creare intorno al nostro ieri, malinconiche ideologie, o, peggio, una sorta d’ideologia della malinconia. Insomma più d’uno hanno cercato di far passare i nostri anni settanta come il periodo topico degli “slanci e delle intuizioni” o, addirittura, come gli anni dell’utopia della giovinezza. Così, in realtà, non è stato, anche se quel periodo è stato veramente unico e, in ogni caso, siamo qui a parlare tra pochi intimi e l’argomento, affrontato a fondo, rischierebbe di divenire pesante, dunque credo sia giusto limitarsi a rivendicare unicamente il diritto al ricordo della mia piccola storia personale.
In effetti, nelle note precedenti (e forse qualcuno l’avrà notato) ho cercato di dare un senso logico agli accadimenti utilizzando i sentimenti che, quelli, suscitavano in me e negli altri. Il tentativo, più o meno manifesto, era però quello di affrontare le questioni dandogli un taglio generale.
Il risultato rimane incerto, perché tante di quelle esperienze non possono certo essere travasate nel pentolone comune senza un approfondimento serio che, forse, a volte, è mancato.
In questa nota vorrei invece essere libero di ricordare soltanto per il gusto di farlo, senza cercare interpretazioni o giustificazioni. E’ evidente che se sinora l’universalità del ragionamento non è riuscita a guadagnare la superficie del mio discorrere, tanto meno lo potrà adesso che il mio argomentare guarderà ancor più all’interno.
Insomma, tagliando corto, se sino ad adesso non ci avete capito molto, saltate pure a piè pari questa nota, a meno ché non siate rosi dalla curiosità voyeuristica di saperne di più della vita degli altri.
Tra settantatré giorni avrò cinque anni. Di questo ancora non mi rendo conto e l’unica preoccupazione è, al momento, che sono stato svegliato dalla nonna e che ho ancora troppo sonno. Il babbo e la mamma, al solito, sono già usciti ed io inizio una nuova giornata.
La nonna Emilia, appena si accorge che la posso ascoltare senza ripiombare nel sonno, mi dice: “Sandrino tira via, alzati su che si va a fare colazione”.
Alzo la testa e guardo i soldatini che avevo lasciato sul comodino. Sono ancora lì ed è uno stimolo in più per alzarsi e magari iniziare a giocare.
Esco dal lettino ed il freddo mi assale pungente; siamo in inverno ed il riscaldamento è limitato alla stufa a kerosene posta nell’ingresso. Dovrei vestirmi, ma mi faccio mettere il grembiulino sul pigiamino pesante; poi, purtroppo, dovrò lavarmi: un’impresa quotidiana!
Vado in cucina, la nonna ha già messo il latte a scaldare, che poi scaldare è un modo di dire, perché quando si ricorda di toglierlo dal fuoco è sempre bollente ed io sono costretto ad aspettare e soffiare…soffiare.
“Nonna, vieni a metterlo nella tazza? Nonna? Mi senti?” Deve essere in bagno, insomma in quel corridoio con in fondo il gabinetto, dove ho sempre paura ad arrivare, quando la luce è spenta.
“Nonna lo levo dal fuoco da solo? Spengo il gas sotto il latte?” Sento soltanto dei borbottii in lontananza. E’ che la nonna non ci vede tanto bene, ma anche ad udito non è poi che brilli.
Ho deciso, faccio da me, tanto arrivo quasi ai fornelli.
Qui il tempo rallenta, come tutte le volte che sta per accadere qualcosa.
Avvicino la mano al manico del tegamino. Non penso che potrei scottarmi e dunque lo stringo con forza. Brucia, brucia e sembra essersi saldato alla mia mano, alla mia manino di bimbo incosciente. La reazione istintiva è ritrarre la mano, ma il bricco del latte criminalmente la segue ed il latte, come una cascata in miniatura, inizia a rovesciarsi su di me ed è, ovviamente, bollente. Riesco a portare indietro la faccia e gran parte del corpo, ma il braccio è investito in pieno dal liquido. Il dolore è lancinante, forse il dolore più forte che poi abbia mai avvertito nella vita se togliamo le coliche renali. Inizio ad urlare, urlo con quanto fiato ho in gola, mentre il terrore mi avvolge e stimola immediatamente il pianto. La nonna è arrivata di corsa; io non mi accorgo di niente, confuso da questa bestia che mi morde il braccio. L’Emilia mi strappa grembiulino e pigiama e mi mette sotto l’acqua fredda. Urlo, urlo e piango e la nonna è come impazzita: sbatte qua e là come una falena ed urla anche lei.
Poi buio. Blakout dei ricordi.
Dei giorni appresso (quanti?), rimangono soltanto ricordi sbrindellati, ricordi vaghi di un braccio fasciato e curato dal vecchio dottore di famiglia. Ricordi di urla e pianti e giochi e caramelle per alleviarli. E poi, tanto tempo dopo, questa cicatrice, oggi poco più grande di due euro, allora grande quasi quanto l’intero mio avambraccio.
Ancora non lo potevo neppure immaginare, ma quell’episodio era stato il primo nodo della vita che si era stretto e che di li a poco avrebbe iniziato a farmi abbracciare quella che diverrà la mia filosofia di vita. Così da anni oramai ogni mattino, ad ogni risveglio, mi rendo conto di quanto sono fortunato perché non soffro e perché non soffre chi mi è caro. Le rabbie, i nervosismi, le irritazioni ed i risentimenti di cui si ciba la gran parte dei miei coetanei, mi sono quasi del tutto estranei. E sottolineo quasi, perché sono umano anch’io e sono anche sufficientemente ragionevole per pensare che non tutto, sempre, può girare nel verso giusto. A volte, però, per vivere meglio, basta provare a guardare il mondo cercando di vederlo e pensare che, tutto sommato, poteva andare molto, ma molto peggio.
Quattro anni d’estate al mare, quattro anni di scogliere affascinanti ma faticose, quattro anni di scarpinate sotto il sole cocente con il solo profumo delle tamerici ad alleviare il senso di stanchezza. Lo so che la mamma ed il babbo lavorano per potermi mandare qua, a questo benedetto mare, ma non è che poi tutto questo sforzo sia così grandemente apprezzato.
“E il pesce che ti fa bene e lo iodio che ti fa respirare meglio ed un po’ di sole che sei sempre bianchiccio”, insomma tutta la classica tiritera per giustificare questo mio stare lontano dagli amici e magari farmi sentire anche un po’ in colpa.
Cosa per altro difficile nel mio caso.
Ogni anno si ripropone così l’immagine della nonna che mi accudisce prendendo il sole con il costume intero o con le gonne pudicamente alzate sulle gambe, il profumo (e le lische) del cacciucco della signora Amina, che come lo fa lei non lo fa nessuno e le salite, faticose, sofferte, al ristorante di conoscenti, su in costa. Ogni benedetto anno compagni di giochi da reiventare e la tortura della temuta “ciambella”, salvavita più che altro psicologico per me che ancora non so nuotare, mentre qui, maledizione, sembrano tutti dei De Biasi.
In questi anni sovente non mi piaccio e spesso ho il broncio, molte volte non mi diverto e sono noioso. La nonna vive per me, per le mie richieste, per i miei bisogni e per i miei capricci, che sono pochi, ma sentiti.
Quest’anno, però, c’è qualcosa di diverso.
Tra poco arrivano Gianni e Gianna e seppure la cosa mi metta in apprensione, è comunque un dolce pensiero. Il mio amico e la mia amica. Sui sentimenti per lui non ho dubbi, su quelli rivolti a lei qualche interrogativo incombe. Perché a nove anni le idee sono spesso confuse, anche se questa agitazione alla bocca dello stomaco sa veramente molto di cotta infantile. Che poi, detto fra noi, cotta nel mio caso è un eufemismo, perché la sbandata va avanti da anni.
Così quando arrivano tutti e tre somigliamo a dei cuccioli che si annusano e ritrovano gli odori familiari, che per noi sono i giochi, le parole, i comuni sentimenti.
Molto tempo dopo, capirò che questa è l’amicizia di una vita, quella che se c’è, c’è, altrimenti non s’inventa e che, salvo incidenti sentimentali, ti accompagna fino alla fine.
I miei sono felici della mia serenità e ci fanno le fotografie: io, sempre un po’ imbronciato, galleggio come una boa da segnalazione incastrato nella mia ciambella, oppure faccio finta di niente, cercando di darmi un improbabile contegno seduto accanto a loro, consumandomi però lo stomaco e l’anima per non essere in grado di esprimere pienamente i miei sentimenti.
Loro, invece, sorridono, belli e disinvolti. Io li guardo e nutro dentro di me la speranza che siano in ogni caso coinvolti in questa comune recita della vita.
Ora capirete che se lo speravo allora, quando ancora non conoscevo niente della vita, non posso che, a maggior ragione, sperarlo oggi.
Torri, torri dell’anima e torri di guerra. Torri scalate alla ricerca di una nuova serenità o di un amore da fare proprio. Desiderio (e delirio) di superare i limiti, aspirazione ad un vivere diverso. Queste sono le mie torri, le torri che mi hanno accompagnato e che, ancor oggi, mi fanno compagnia.
Si sa, la verticalità del vivere era, ed è, aspirazione umana. Chi, infatti, non vuole osare come Icaro, sovrapporrà una pietra all’altra, uno strato di cemento armato all’altro, un’aerea volumetria vetrata all’altra per cercare di arrivare al cielo, così da poter guardare e farsi guardare.
Chi non può costruire o abitare quello sforzo di volontà, non può che cercare di viverlo spacciandosi per visitatore, un turista-bambino che nasconde la maturità (e l’azzardo) dei suoi sentimenti.
Dalla biblica Babele alla postmoderna Malesia, passando per Londra, Parigi o Firenze, le torri sono le specchio della nostra anima, la costante verifica della voglia di uscire dalla preistoria. Le torri fanno poi coppia fissa con i campanili, proprio come le trombe e le campane, ma qui vi risparmio la citazione.
Le mie torri (ed i miei campanili) sono, però, tutti italiani, come italiana è la mia limitata esperienza di viaggiatore. Questo non significa però ignorare. Eventualmente vuol dire conoscere soltanto con la mente, aver potuto vedere ed ascoltare, ma non aver potuto odorare, toccare, assaggiare.
Un prezzo alto certamente, ma d’altronde un prezzo da pagare c’è sempre.
E questo è uno di quelli che si possono sopportare.
Io bambino, ancora si saliva la torre d’Arnolfo, dominando Piazza Signoria e la terrazza degli Uffizi, mentre la torre del Bargello ed il campanile della Badia erano dinanzi a noi a volo d’uccello. Il campanile di Giotto non aveva ancora transenne antisuicidio ed il biglietto costava soltanto cinquanta lire, mentre la Cupola, senza essere torre e neppure campanile, ci forzava lo stesso a salite ripide e, nella parte più alta, pure un po’ claustrofobiche. Ma torri e fortilizi non mancavano anche appena fuori dal centro. Dalle porte d’ingresso alla città al Forte di Belvedere o, magari, alla torretta del Caffèhause di Boboli.
Poi, tempo dopo, potei salire le torri di Siena, di Lucca, di S.Giminiano, di Pistoia, quelle bellissime di Lucca e Serravalle o magari quelle d’avvistamento della costa o i fari delle città marinare.
Metafora della vita, le torri ci accompagnano costantemente nella ricerca di noi stessi, dei nostri limiti e della forza di volontà che serve per riuscire a forzarli, così da arrivare finalmente a soddisfare i nostri bisogni o i nostri sogni.
Certo è che sulle torri si sale per amore. Di una donna, dei propri figli o semplicemente dell’infinito che si fa desiderio e che, finalmente, viene posseduto dallo sguardo. Nell’armonia che dona l’altezza, tutto sembra più gestibile, più controllabile, meno misterioso e pericoloso. La realtà diviene soggettiva, lo spirito si libera: è il nostro Everest formato famiglia. Baciare una donna o spiegare i difficili argomenti della vita, assaporare il conforto del nostro annullarsi (lento lembo trasportato dal vento), quassù diviene semplice e possibile. L’assenza sopra di noi ci esalta e ci fa dire e fare quello che laggiù mai saremmo capaci di realizzare o sostenere.
Alcuni ricordano i loro sogni, altri li rimuovono, altri ancora darebbero chissà cosa per averne memoria.
Io ricordo.
Spesso.
Sarà che, purtroppo, sono facilitato dai tanti microrisvegli che mi hanno da sempre impedito il lusso di un sonno piombigno, privandomi di quei torpori che prendono repentini dopo i programmi di prima serata e che ti avvolgono strettamente sino al mattino. Figurarsi poi ora che inizio ad avere una certa età. Così tra un risveglio e l’altro ho iniziato ad imbastire trame, cucendo sogni a sogni, magari anche cercando d’influenzarli. Con scarso successo per altro. Ma questo esercizio mi rende più semplice rievocare. Molti di noi hanno, si sa, sogni ricorrenti ed anch’io non faccio eccezione. Alcuni di loro si sono evoluti nel tempo e poi si sono autodistrutti, altri proseguono con cadenza mensile.
E’ evidente che mi guarderò bene da interpretare o da cercare di capire.
La psicologia lasciamola pure agli esperti ed ai negromanti.
Il primo riguarda il mio giardino segreto, il secondo la casa che non c’è mai stata e mai ci sarà.
In realtà più che di giardino dovrei parlare di parco o di radura in mezzo al bosco, seppure bosco domestico. A volte è soltanto un parterre, ma, comunque, le fontane non mancano mai. E spesso, quasi sempre, in quelle vasche nuotano pigramente grossi pesci, forse carpe o addirittura pesci gatto. Chimerici animali acquatici che talvolta si fermano a guardarmi, per poi, disinteressati, riprendere i loro giri privi di logica. L’atmosfera è quella dell’abbandono totale, anche se i pesci viventi appaiono come una contraddizione stridente con l’immobile nulla che li circonda. Le piante ed il sottobosco, o il giardino incolto, emanano odore di muschi e tutto è permeato da un’umidità immobile. Gli alberi sono infiniti e spesso chiudono la volta impedendo alla luce di illuminare a pieno la scena. Il tutto sembrerebbe angoscioso, ma io sono tranquillo e rilassato, anzi sento quei segreti come mia essenza, come posto dell’anima. Cammino in un silenzio ovattato, niente canti d’uccelli o stormire di fronde, tutto è come congelato in una serie di immagini fotografiche. Colori dominanti: tutte le variabili del verde sino al nero, pochi marroni e grigi. Io mi addentro curioso, carezzo le piante, cerco di evitare gli ostacoli del sottobosco (o del giardino incolto), a volte procedo su vecchi lastricati coperti di licheni. Il punto di arrivo sono sempre le vasche. A volte circolari, a volte costruite come piccole grotte, come si possono ancora vedere a Boboli o salendo al Piazzale Michelangelo. E nascosti tra quelle alghe, sotto quelle acque cosparse di mucillaggini, nuotano quelli che, presumo, siano la raffigurazione dei miei dubbi. La mia presenza non li coinvolge, non li turba. A volte, quasi meccanici, si bloccano e mi guardano. So per certo che non metterei mai la mano dentro quelle acque che immagino fredde e, a maggior ragione, mai mi farei sfiorare da quelle creature, anche se sento che per loro la mia esistenza è superflua. Nuotano indolenti guardando al di là del loro mondo. Quello che mette in confusione è che lo fanno in maniera sin troppo antropomorfica, quasi fossero anime nane costrette all’interno di una pelle squamata, un vestitino grigio fumo di londra con una piccola cerniera nascosta sotto la pancia, pronta ad aprirsi ed a lasciar fuoriuscire vaporosamente il non-senso della vita.
Cammino e guardo, odoro, mi soffermo incuriosito contemplando la raffinata, delicata, complicata rete dei licheni, che seguono il ruscellare delle acque, per loro principio di vita e di riproduzione. Ma che ci faccio io qui? Questo, purtroppo (o per fortuna), non è dato sapere. Ma sta di fatto che qui non mi trovo affatto male, anche se, in verità, seppure lentamente, indolentemente, il freddo tende ad insinuarsi sotto le vesti aspirando (ora è chiaro) ad ibernarmi l’anima.
Ma sempre a questo punto, trovo il modo di svegliarmi (oppure il sogno è programmato per estinguersi). Questo forse perché dopo le domande, invariabilmente, devono sempre venire le risposte. Quelle che, spesso, per molti di noi è difficile trovare o accettare.
Meglio allora tornare ad una realtà normalmente incompresa.
La Casa Che Non C’è è spesso enorme come una cattedrale o smisurata come un opificio di fine ottocento. E’ comunque sempre malmessa, con centinaia di anni sulle spalle. Il numero delle stanze è stupefacente, anche se io, senza eccezione, mi occupo soltanto di alcune di loro. Entro e so che potrebbe essere la mia casa del domani e che dunque mi attendono enormi lavori di ristrutturazione, che nella mia ingenuità onirica, penso di poter portare a compimento da solo. Spesso ci sono porticati e giardini, sempre comunque scale e piani sopraelevati da raggiungere. I tetti sono completamente da restaurare e dai molti abbaini entrano ed escono frotte di piccioni. Il disordine e lo sporco regnano sovrani. Io percorro corridoi, salgo scalini, visiono impiantiti in mattoni da sostituire, prevedo tempi e modalità per le riparazioni. E’ evidente che si tratta di un sogno, nella realtà converrebbe far arrivare le ruspe e cominciare da zero, ma in quella dimensione tutto appare facile, di semplice realizzazione. E mentre percorro quelle stanze ed odoro l’aria pregna di muffe e polvere, ho sempre un flashback della mia casa precedente, un appartamento di una sola stanza, preso in affitto molti anni prima. Talmente sono convinto di questo stato di fatto, che, a volte, anche quando mi sveglio rimango stranamente persuaso di averla posseduta realmente o nel dormiveglia, pur anche di averla ancora. Fuori dalla casa (lo intravedo dalle grandi vetrate opache) serre abbandonate, sentieri cancellati dal tempo.
Talmente non volevo crederci che ho continuato a passarci davanti una, due, tre volte. Ed invece era vero: il bar è sparito, anzi peggio, è stato trasformato in un ristorante per turisti.
Si badi bene, non ho niente contro i ristoranti e neppure niente contro i fast food o le paninerie o contro tutte queste spizzicherie che stanno nascendo e morendo da un giorno all’altro.
Mi brucia soltanto che questa città mutante si stia fagocitando a poco a poco tutti i miei ricordi. Sentimento per niente originale, penserete voi, ma vi assicuro che al di là delle apparenze, è un’emozione condivisa da sempre meno persone. Qualcuno, su questa lieve sofferenza, ha cercato, per altro spesso, di specularci, volendo creare intorno al nostro ieri, malinconiche ideologie, o, peggio, una sorta d’ideologia della malinconia. Insomma più d’uno hanno cercato di far passare i nostri anni settanta come il periodo topico degli “slanci e delle intuizioni” o, addirittura, come gli anni dell’utopia della giovinezza. Così, in realtà, non è stato, anche se quel periodo è stato veramente unico e, in ogni caso, siamo qui a parlare tra pochi intimi e l’argomento, affrontato a fondo, rischierebbe di divenire pesante, dunque credo sia giusto limitarsi a rivendicare unicamente il diritto al ricordo della mia piccola storia personale.
In effetti, nelle note precedenti (e forse qualcuno l’avrà notato) ho cercato di dare un senso logico agli accadimenti utilizzando i sentimenti che, quelli, suscitavano in me e negli altri. Il tentativo, più o meno manifesto, era però quello di affrontare le questioni dandogli un taglio generale.
Il risultato rimane incerto, perché tante di quelle esperienze non possono certo essere travasate nel pentolone comune senza un approfondimento serio che, forse, a volte, è mancato.
In questa nota vorrei invece essere libero di ricordare soltanto per il gusto di farlo, senza cercare interpretazioni o giustificazioni. E’ evidente che se sinora l’universalità del ragionamento non è riuscita a guadagnare la superficie del mio discorrere, tanto meno lo potrà adesso che il mio argomentare guarderà ancor più all’interno.
Insomma, tagliando corto, se sino ad adesso non ci avete capito molto, saltate pure a piè pari questa nota, a meno ché non siate rosi dalla curiosità voyeuristica di saperne di più della vita degli altri.
Tra settantatré giorni avrò cinque anni. Di questo ancora non mi rendo conto e l’unica preoccupazione è, al momento, che sono stato svegliato dalla nonna e che ho ancora troppo sonno. Il babbo e la mamma, al solito, sono già usciti ed io inizio una nuova giornata.
La nonna Emilia, appena si accorge che la posso ascoltare senza ripiombare nel sonno, mi dice: “Sandrino tira via, alzati su che si va a fare colazione”.
Alzo la testa e guardo i soldatini che avevo lasciato sul comodino. Sono ancora lì ed è uno stimolo in più per alzarsi e magari iniziare a giocare.
Esco dal lettino ed il freddo mi assale pungente; siamo in inverno ed il riscaldamento è limitato alla stufa a kerosene posta nell’ingresso. Dovrei vestirmi, ma mi faccio mettere il grembiulino sul pigiamino pesante; poi, purtroppo, dovrò lavarmi: un’impresa quotidiana!
Vado in cucina, la nonna ha già messo il latte a scaldare, che poi scaldare è un modo di dire, perché quando si ricorda di toglierlo dal fuoco è sempre bollente ed io sono costretto ad aspettare e soffiare…soffiare.
“Nonna, vieni a metterlo nella tazza? Nonna? Mi senti?” Deve essere in bagno, insomma in quel corridoio con in fondo il gabinetto, dove ho sempre paura ad arrivare, quando la luce è spenta.
“Nonna lo levo dal fuoco da solo? Spengo il gas sotto il latte?” Sento soltanto dei borbottii in lontananza. E’ che la nonna non ci vede tanto bene, ma anche ad udito non è poi che brilli.
Ho deciso, faccio da me, tanto arrivo quasi ai fornelli.
Qui il tempo rallenta, come tutte le volte che sta per accadere qualcosa.
Avvicino la mano al manico del tegamino. Non penso che potrei scottarmi e dunque lo stringo con forza. Brucia, brucia e sembra essersi saldato alla mia mano, alla mia manino di bimbo incosciente. La reazione istintiva è ritrarre la mano, ma il bricco del latte criminalmente la segue ed il latte, come una cascata in miniatura, inizia a rovesciarsi su di me ed è, ovviamente, bollente. Riesco a portare indietro la faccia e gran parte del corpo, ma il braccio è investito in pieno dal liquido. Il dolore è lancinante, forse il dolore più forte che poi abbia mai avvertito nella vita se togliamo le coliche renali. Inizio ad urlare, urlo con quanto fiato ho in gola, mentre il terrore mi avvolge e stimola immediatamente il pianto. La nonna è arrivata di corsa; io non mi accorgo di niente, confuso da questa bestia che mi morde il braccio. L’Emilia mi strappa grembiulino e pigiama e mi mette sotto l’acqua fredda. Urlo, urlo e piango e la nonna è come impazzita: sbatte qua e là come una falena ed urla anche lei.
Poi buio. Blakout dei ricordi.
Dei giorni appresso (quanti?), rimangono soltanto ricordi sbrindellati, ricordi vaghi di un braccio fasciato e curato dal vecchio dottore di famiglia. Ricordi di urla e pianti e giochi e caramelle per alleviarli. E poi, tanto tempo dopo, questa cicatrice, oggi poco più grande di due euro, allora grande quasi quanto l’intero mio avambraccio.
Ancora non lo potevo neppure immaginare, ma quell’episodio era stato il primo nodo della vita che si era stretto e che di li a poco avrebbe iniziato a farmi abbracciare quella che diverrà la mia filosofia di vita. Così da anni oramai ogni mattino, ad ogni risveglio, mi rendo conto di quanto sono fortunato perché non soffro e perché non soffre chi mi è caro. Le rabbie, i nervosismi, le irritazioni ed i risentimenti di cui si ciba la gran parte dei miei coetanei, mi sono quasi del tutto estranei. E sottolineo quasi, perché sono umano anch’io e sono anche sufficientemente ragionevole per pensare che non tutto, sempre, può girare nel verso giusto. A volte, però, per vivere meglio, basta provare a guardare il mondo cercando di vederlo e pensare che, tutto sommato, poteva andare molto, ma molto peggio.
Quattro anni d’estate al mare, quattro anni di scogliere affascinanti ma faticose, quattro anni di scarpinate sotto il sole cocente con il solo profumo delle tamerici ad alleviare il senso di stanchezza. Lo so che la mamma ed il babbo lavorano per potermi mandare qua, a questo benedetto mare, ma non è che poi tutto questo sforzo sia così grandemente apprezzato.
“E il pesce che ti fa bene e lo iodio che ti fa respirare meglio ed un po’ di sole che sei sempre bianchiccio”, insomma tutta la classica tiritera per giustificare questo mio stare lontano dagli amici e magari farmi sentire anche un po’ in colpa.
Cosa per altro difficile nel mio caso.
Ogni anno si ripropone così l’immagine della nonna che mi accudisce prendendo il sole con il costume intero o con le gonne pudicamente alzate sulle gambe, il profumo (e le lische) del cacciucco della signora Amina, che come lo fa lei non lo fa nessuno e le salite, faticose, sofferte, al ristorante di conoscenti, su in costa. Ogni benedetto anno compagni di giochi da reiventare e la tortura della temuta “ciambella”, salvavita più che altro psicologico per me che ancora non so nuotare, mentre qui, maledizione, sembrano tutti dei De Biasi.
In questi anni sovente non mi piaccio e spesso ho il broncio, molte volte non mi diverto e sono noioso. La nonna vive per me, per le mie richieste, per i miei bisogni e per i miei capricci, che sono pochi, ma sentiti.
Quest’anno, però, c’è qualcosa di diverso.
Tra poco arrivano Gianni e Gianna e seppure la cosa mi metta in apprensione, è comunque un dolce pensiero. Il mio amico e la mia amica. Sui sentimenti per lui non ho dubbi, su quelli rivolti a lei qualche interrogativo incombe. Perché a nove anni le idee sono spesso confuse, anche se questa agitazione alla bocca dello stomaco sa veramente molto di cotta infantile. Che poi, detto fra noi, cotta nel mio caso è un eufemismo, perché la sbandata va avanti da anni.
Così quando arrivano tutti e tre somigliamo a dei cuccioli che si annusano e ritrovano gli odori familiari, che per noi sono i giochi, le parole, i comuni sentimenti.
Molto tempo dopo, capirò che questa è l’amicizia di una vita, quella che se c’è, c’è, altrimenti non s’inventa e che, salvo incidenti sentimentali, ti accompagna fino alla fine.
I miei sono felici della mia serenità e ci fanno le fotografie: io, sempre un po’ imbronciato, galleggio come una boa da segnalazione incastrato nella mia ciambella, oppure faccio finta di niente, cercando di darmi un improbabile contegno seduto accanto a loro, consumandomi però lo stomaco e l’anima per non essere in grado di esprimere pienamente i miei sentimenti.
Loro, invece, sorridono, belli e disinvolti. Io li guardo e nutro dentro di me la speranza che siano in ogni caso coinvolti in questa comune recita della vita.
Ora capirete che se lo speravo allora, quando ancora non conoscevo niente della vita, non posso che, a maggior ragione, sperarlo oggi.
Torri, torri dell’anima e torri di guerra. Torri scalate alla ricerca di una nuova serenità o di un amore da fare proprio. Desiderio (e delirio) di superare i limiti, aspirazione ad un vivere diverso. Queste sono le mie torri, le torri che mi hanno accompagnato e che, ancor oggi, mi fanno compagnia.
Si sa, la verticalità del vivere era, ed è, aspirazione umana. Chi, infatti, non vuole osare come Icaro, sovrapporrà una pietra all’altra, uno strato di cemento armato all’altro, un’aerea volumetria vetrata all’altra per cercare di arrivare al cielo, così da poter guardare e farsi guardare.
Chi non può costruire o abitare quello sforzo di volontà, non può che cercare di viverlo spacciandosi per visitatore, un turista-bambino che nasconde la maturità (e l’azzardo) dei suoi sentimenti.
Dalla biblica Babele alla postmoderna Malesia, passando per Londra, Parigi o Firenze, le torri sono le specchio della nostra anima, la costante verifica della voglia di uscire dalla preistoria. Le torri fanno poi coppia fissa con i campanili, proprio come le trombe e le campane, ma qui vi risparmio la citazione.
Le mie torri (ed i miei campanili) sono, però, tutti italiani, come italiana è la mia limitata esperienza di viaggiatore. Questo non significa però ignorare. Eventualmente vuol dire conoscere soltanto con la mente, aver potuto vedere ed ascoltare, ma non aver potuto odorare, toccare, assaggiare.
Un prezzo alto certamente, ma d’altronde un prezzo da pagare c’è sempre.
E questo è uno di quelli che si possono sopportare.
Io bambino, ancora si saliva la torre d’Arnolfo, dominando Piazza Signoria e la terrazza degli Uffizi, mentre la torre del Bargello ed il campanile della Badia erano dinanzi a noi a volo d’uccello. Il campanile di Giotto non aveva ancora transenne antisuicidio ed il biglietto costava soltanto cinquanta lire, mentre la Cupola, senza essere torre e neppure campanile, ci forzava lo stesso a salite ripide e, nella parte più alta, pure un po’ claustrofobiche. Ma torri e fortilizi non mancavano anche appena fuori dal centro. Dalle porte d’ingresso alla città al Forte di Belvedere o, magari, alla torretta del Caffèhause di Boboli.
Poi, tempo dopo, potei salire le torri di Siena, di Lucca, di S.Giminiano, di Pistoia, quelle bellissime di Lucca e Serravalle o magari quelle d’avvistamento della costa o i fari delle città marinare.
Metafora della vita, le torri ci accompagnano costantemente nella ricerca di noi stessi, dei nostri limiti e della forza di volontà che serve per riuscire a forzarli, così da arrivare finalmente a soddisfare i nostri bisogni o i nostri sogni.
Certo è che sulle torri si sale per amore. Di una donna, dei propri figli o semplicemente dell’infinito che si fa desiderio e che, finalmente, viene posseduto dallo sguardo. Nell’armonia che dona l’altezza, tutto sembra più gestibile, più controllabile, meno misterioso e pericoloso. La realtà diviene soggettiva, lo spirito si libera: è il nostro Everest formato famiglia. Baciare una donna o spiegare i difficili argomenti della vita, assaporare il conforto del nostro annullarsi (lento lembo trasportato dal vento), quassù diviene semplice e possibile. L’assenza sopra di noi ci esalta e ci fa dire e fare quello che laggiù mai saremmo capaci di realizzare o sostenere.
Alcuni ricordano i loro sogni, altri li rimuovono, altri ancora darebbero chissà cosa per averne memoria.
Io ricordo.
Spesso.
Sarà che, purtroppo, sono facilitato dai tanti microrisvegli che mi hanno da sempre impedito il lusso di un sonno piombigno, privandomi di quei torpori che prendono repentini dopo i programmi di prima serata e che ti avvolgono strettamente sino al mattino. Figurarsi poi ora che inizio ad avere una certa età. Così tra un risveglio e l’altro ho iniziato ad imbastire trame, cucendo sogni a sogni, magari anche cercando d’influenzarli. Con scarso successo per altro. Ma questo esercizio mi rende più semplice rievocare. Molti di noi hanno, si sa, sogni ricorrenti ed anch’io non faccio eccezione. Alcuni di loro si sono evoluti nel tempo e poi si sono autodistrutti, altri proseguono con cadenza mensile.
E’ evidente che mi guarderò bene da interpretare o da cercare di capire.
La psicologia lasciamola pure agli esperti ed ai negromanti.
Il primo riguarda il mio giardino segreto, il secondo la casa che non c’è mai stata e mai ci sarà.
In realtà più che di giardino dovrei parlare di parco o di radura in mezzo al bosco, seppure bosco domestico. A volte è soltanto un parterre, ma, comunque, le fontane non mancano mai. E spesso, quasi sempre, in quelle vasche nuotano pigramente grossi pesci, forse carpe o addirittura pesci gatto. Chimerici animali acquatici che talvolta si fermano a guardarmi, per poi, disinteressati, riprendere i loro giri privi di logica. L’atmosfera è quella dell’abbandono totale, anche se i pesci viventi appaiono come una contraddizione stridente con l’immobile nulla che li circonda. Le piante ed il sottobosco, o il giardino incolto, emanano odore di muschi e tutto è permeato da un’umidità immobile. Gli alberi sono infiniti e spesso chiudono la volta impedendo alla luce di illuminare a pieno la scena. Il tutto sembrerebbe angoscioso, ma io sono tranquillo e rilassato, anzi sento quei segreti come mia essenza, come posto dell’anima. Cammino in un silenzio ovattato, niente canti d’uccelli o stormire di fronde, tutto è come congelato in una serie di immagini fotografiche. Colori dominanti: tutte le variabili del verde sino al nero, pochi marroni e grigi. Io mi addentro curioso, carezzo le piante, cerco di evitare gli ostacoli del sottobosco (o del giardino incolto), a volte procedo su vecchi lastricati coperti di licheni. Il punto di arrivo sono sempre le vasche. A volte circolari, a volte costruite come piccole grotte, come si possono ancora vedere a Boboli o salendo al Piazzale Michelangelo. E nascosti tra quelle alghe, sotto quelle acque cosparse di mucillaggini, nuotano quelli che, presumo, siano la raffigurazione dei miei dubbi. La mia presenza non li coinvolge, non li turba. A volte, quasi meccanici, si bloccano e mi guardano. So per certo che non metterei mai la mano dentro quelle acque che immagino fredde e, a maggior ragione, mai mi farei sfiorare da quelle creature, anche se sento che per loro la mia esistenza è superflua. Nuotano indolenti guardando al di là del loro mondo. Quello che mette in confusione è che lo fanno in maniera sin troppo antropomorfica, quasi fossero anime nane costrette all’interno di una pelle squamata, un vestitino grigio fumo di londra con una piccola cerniera nascosta sotto la pancia, pronta ad aprirsi ed a lasciar fuoriuscire vaporosamente il non-senso della vita.
Cammino e guardo, odoro, mi soffermo incuriosito contemplando la raffinata, delicata, complicata rete dei licheni, che seguono il ruscellare delle acque, per loro principio di vita e di riproduzione. Ma che ci faccio io qui? Questo, purtroppo (o per fortuna), non è dato sapere. Ma sta di fatto che qui non mi trovo affatto male, anche se, in verità, seppure lentamente, indolentemente, il freddo tende ad insinuarsi sotto le vesti aspirando (ora è chiaro) ad ibernarmi l’anima.
Ma sempre a questo punto, trovo il modo di svegliarmi (oppure il sogno è programmato per estinguersi). Questo forse perché dopo le domande, invariabilmente, devono sempre venire le risposte. Quelle che, spesso, per molti di noi è difficile trovare o accettare.
Meglio allora tornare ad una realtà normalmente incompresa.
La Casa Che Non C’è è spesso enorme come una cattedrale o smisurata come un opificio di fine ottocento. E’ comunque sempre malmessa, con centinaia di anni sulle spalle. Il numero delle stanze è stupefacente, anche se io, senza eccezione, mi occupo soltanto di alcune di loro. Entro e so che potrebbe essere la mia casa del domani e che dunque mi attendono enormi lavori di ristrutturazione, che nella mia ingenuità onirica, penso di poter portare a compimento da solo. Spesso ci sono porticati e giardini, sempre comunque scale e piani sopraelevati da raggiungere. I tetti sono completamente da restaurare e dai molti abbaini entrano ed escono frotte di piccioni. Il disordine e lo sporco regnano sovrani. Io percorro corridoi, salgo scalini, visiono impiantiti in mattoni da sostituire, prevedo tempi e modalità per le riparazioni. E’ evidente che si tratta di un sogno, nella realtà converrebbe far arrivare le ruspe e cominciare da zero, ma in quella dimensione tutto appare facile, di semplice realizzazione. E mentre percorro quelle stanze ed odoro l’aria pregna di muffe e polvere, ho sempre un flashback della mia casa precedente, un appartamento di una sola stanza, preso in affitto molti anni prima. Talmente sono convinto di questo stato di fatto, che, a volte, anche quando mi sveglio rimango stranamente persuaso di averla posseduta realmente o nel dormiveglia, pur anche di averla ancora. Fuori dalla casa (lo intravedo dalle grandi vetrate opache) serre abbandonate, sentieri cancellati dal tempo.
Etichette: 1968, amore, analisi, autoanalisi, ricordi
<< Home page