Autoanalisi

Ricordare per poter comunicare.Quello che abbiamo vissuto senza pentimenti e capriole, nè in politica, nè in privato. Molto amore, molta passione ed una spruzzata di fortuna, per noi che avevamo vent'anni in quegli anni.

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venerdì 13 maggio 2005

Il sessantotto

Dal ’66 al ‘69
Quando iniziammo ad uscire dall’incubo dell’alluvione, avevamo già ampiamente percorso buona parte del 1967.
Sino allora eravamo stati presi dalla sopravvivenza e privi com’eravamo d’energia elettrica ed essendo introvabili i giornali, eravamo rimasti senza notizie dal mondo esterno.
Avevamo, insomma, vissuto in una sorta d’apnea culturale per mesi.
Ma nonostante i nostri guai, nel frattempo, il resto del pianeta aveva continuato a vivere, anche se pure preistoricamente come al solito.
La tensione mondiale aumentava: a giugno, con la guerra dei sei giorni, gli israeliani estendevano il loro territorio dal Libano meridionale al Sinai, sino ai confini giordani.
In Grecia s’impadronivano del potere i colonnelli: il risultato sarà successivamente una repressione spietata contro gli oppositori di sinistra.
In Bolivia veniva assassinato Che Guevara.
In Nigeria scoppiava la guerra civile per la secessione del Biafra: da allora il nome di quella regione, per noi, divenne sinonimo di fame e disperazione.
In Italia, più semplicemente, scoppiava lo scandalo per i Servizi deviati ed iniziavano le proteste ed i cortei contro la riforma Gui.
In quei mesi sono occupati gli atenei di Pisa, Trento, Milano, Torino.
Io sono stato promosso in seconda istituto senza infamia e senza lode.
I tempi delle medie sembrano lontani, qua mi sento un numero, sono insofferente a questa classe affollata, alla necessità di adoperare unghie e denti per rimanere a galla o comunque per non fare la fine di quei due o tre che sono presi costantemente di mira per la loro presunta incapacità a vivere secondo i canoni della maggioranza.
Probabilmente sono il perfetto connubio d’ipersensibilità ed immaturità.
Non ricordo assolutamente nessuno dei miei compagni di allora, eppure alle elementari ed alle medie avevo fior fiore d’amici.
Da quando entro in quel palazzaccio scolastico sino a quando n’esco, è una quotidiana sofferenza: sto imparando ad imboscarmi, una pratica che mi sarà molto utile durante i quindici mesi di militare.
Ricordo solo la professoressa d’italiano, che a cinquanta anni era lì a chiedersi come poteva fare a reggere sino alla pensione, sovrastata dal diffuso disinteresse e dalla crudezza di quei ragazzi.
Nel frattempo era arrivato il ’68 ed ancora non lo sapevamo.
Il 1968 è il giro di boa, l’anno di Valle Giulia, delle Alfa e dei gipponi verde militare della celere. I poliziotti, in quell’occasione, sono ancora impreparati, legati nei movimenti dai loro pastrani indietreggiano e si disperdono: dopo un primo scontro sono già pronti a ripiegare.
Gli studenti hanno ancora i capelli corti e le idee poco chiare come sempre.
Finisce tra sassaiole e lacrimogeni; i giornali titolano stupiti: “Follia all’Università d’Architettura di Roma”.
In Francia tutti hanno le idee più chiare, o così almeno pensano: è il Maggio francese, quello rimasto nei libri di testo.
In Messico si fa ancora più seriamente: decine di studenti sono uccisi durante una manifestazione in piazza delle Tre Culture a Città del Messico.
A Praga Dubcek è destituito con la forza dall’esercito sovietico.
Negli Stati Uniti sono assassinati Robert Kennedy e Martin Luther King e Nixon diviene presidente.
In Italia dopo un’alluvione c’è da aspettarsi un terremoto ed, infatti, il Belice n’è devastato.
Se andate là, ancora oggi esistono le baracche dei primi soccorsi, abitate e tramandate di madre in figlia.
Io comincio a formarmi un’idea di massima di come va il mondo.
Inizio a pensare che forse fare lo studente “in rivolta” sia meno noioso che fare il bravo studente.
Oggi si direbbe: i bravi bambini vanno in Paradiso, ma quelli cattivi vanno ovunque.
Ed allora rifletto, cerco di capire.
Il mondo così com’è non mi piace per niente e, in ogni caso, questo iniziare a sentirmi parte di un tutto è molto gratificante.
Che gli studenti sono politicamente il nulla, lo capirò soltanto molto tempo dopo, per ora mi affascina quel turbamento che inizio ad avvertire nel corpo insegnante ed in generale nella cosiddetta opinione pubblica.
Avevo già gli stivaletti ed il cappello alle Beatles, decido ora per un cambiamento d’immagine: eskimo, pantaloni di velluto a coste ed anfibi.
Tra poco arriveranno maglioni fatti a mano e sciarpa rossa.
Ma la lotta non è alle porte e mi hanno rimandato in due materie; studio come un matto ed a settembre è un figurone. Sono in terza.
Abbiamo iniziato a ripulire dal fango dell’alluvione una cantina in Via dei Pepi.
Il padrone è tutto contento, ottiene lavoro gratis e può contare -lui che ha esperienza- sulla nostra futura incostanza e dunque su una cantina pulita a sua completa disposizione. Facciamo le prime feste.
Ho conosciuto una ragazza carina, intelligente e, soprattutto, che mi sta a sentire. Potrebbe essere un buon inizio.
A scuola abbiamo inventato gli “attivi”, assemblee di classe ed interclasse, che pretendiamo, dopo un inizio legalitario, di gestire da soli nei tempi e nei modi.
Il Movimento Studentesco è oramai una realtà, in molte città i manifestanti hanno scaramucce con la polizia e l’effetto valanga amplifica le poche notizie che iniziano a circolare.
Il mio disagio e la mia insofferenza aumentano, sia verso i miei, sia verso il mondo intero.
In quarta andrò se rimedierò tre materie: l’escalation è preoccupante, ma chi se ne frega.
La mia estate passa sui moli di cemento di Castiglioncello, vicino alla nuova ragazza, ma con la testa allo studio e a questi nuovi pensieri che ronzano incessanti: il mio ruolo, il mio domani, il futuro di tutti.
Mi pesa l’inutilità di qualsiasi cosa abbia sinora messo in atto per cercare di oppormi a questa cappa che sento sulla testa, una zavorra che è connubio d’ingiustizia ed insoddisfazione. Avverto, forte, il desiderio di qualcosa di nuovo, che ancora, come tanti altri, non riesco a mettere a fuoco.
Ancora non sapevamo che in questi anni si stavano mettendo in gioco i destini di molti di noi, tanti trip diversi, dalla droga alla Skorpion, ai viaggi senza ritorno verso i paradisi orientali.
Anche io ero dinanzi a strade diverse, ma, fortunatamente, il carattere e la formazione mi hanno sempre spinto ai margini di quel gorgo. Da lì sono stato obbligato ad osservare la fine di non pochi miei compagni, risucchiati nel nulla.
Fortunatamente le P38, epilogo di quegli anni che dovevamo ancora vivere, erano ancora lontane ed i passamontagna servivano soltanto per ripararsi dal freddo andando a scuola in motorino.
I nostri mascheramenti di battaglia, per il momento, erano soltanto i fazzoletti sul volto, quasi un’imitazione dei banditi dei film western.
In quel periodo iniziarono a circolare i volantini di Potere Operaio.
Cominciammo veramente a credere di essere un’entità reale, di poter creare qualcosa di diverso in questa società e di non essere costretti a fare soltanto “il nostro dovere”.
I nostri genitori si stavano allontanando da noi a velocità esponenziale e le regole sembravano esserci poste dinanzi soltanto perchè potessimo infrangerle.
La nostra generazione comprese in quei giorni di avere un’opportunità, ossia di questo s’illudeva, ma in ogni modo, l’energia liberata stava divenendo smisurata e minacciosamente continuava a lievitare.
Io supero lo scoglio degli esami di riparazione, anche se i professori iniziano a guardarmi in maniera particolare.
Dal mio punto di vista i loro timori si trasformano in forza, le loro oneste incertezze nelle mie future arroganze.
Il 1969 è il primo dei miei due anni terrificanti, atroci nei rapporti con i miei, con la scuola, con il mondo intero, con me stesso.
Sono in quarta istituto ed alla fine dell’anno sarò rimandato a settembre in tutte le materie per aver superato il quarto delle assenze consentite.
In realtà supererò abbondantemente la metà.
In quell’anno le paure di mia madre prendono forma, si concretizzano: ho infatti incontrato le tanto temute “cattive compagnie”, in particolare un nuovo compagno di classe che viene da Livorno.
L’ho trovato subito interessante, con le sue chiacchiere, il modo sfacciato di opporsi alla vita, le critiche feroci al sistema, il vivere da solo in pensione, quell’aria da me ne frego che affascina sempre quelli come me.
Aveva un modo di pensare, una sorta d’ideologia, che, sostanzialmente, al momento del suo arrivo a Firenze, credo fosse ancora fascista. Almeno in quella forma strana che gli anarchici individualisti coltivano a quell’età. Capì che con me gli conveniva sbandierare un altro vessillo e si adeguò: io facevo Pinocchio e lui compendiava Gatto e Volpe.
Non ricordo come fu che il nostro covo, la nostra ragnatela, divenne un bar del centro, in Piazza Davanzati.
Meno che andare a scuola facevamo di tutto.
Nella saletta sottostante, quelle che oggi sono definite tea-room, aspettavamo al varco le ragazze, che iniziavano ad avere i loro bisogni di ribellione, necessità alle quali noi disegnavamo i confini. Ce n’erano grate e ci ascoltavano cercando di assumere quell’aria un po’ vissuta, un po’ sofferta che si presumeva noi avessimo gradito.
Ci raccontavano le loro pene, mai semplicemente amorose, perché questo non era più di moda, ma sempre intrise di politica fantasiosa, di richiami a libri ed autori che ignoravano quanto noi.
Noi eravamo quelli che le capivano, anzi quelli che maggiormente le incitavano ad una loro vita autonoma ed indipendente, che le spingevano a far valere la loro personalità, a liberare il loro fuoco mistico.
E tutte, inevitabilmente, ci cascavano.
Alla fine di maggio la Viola mi regalò una di quelle emozioni che si possono raccontare ai figli e per come stanno le cose a tutt’oggi, purtroppo anche ai nipoti. Battendo la Nemica Storica, l’Innominabile, con una giornata d’anticipo, vinciamo il tanto sospirato secondo Scudetto.
Due giorni e due notti di giubilo; Firenze è ai piedi della sua squadra e per un anno può sentirsi caput mundi. Finalmente noi fiorentini possiamo pavoneggiarci, vantarci ed esibire i nostri campioni.
Con Fabio passiamo giornate e notti in giro per la città, sventolando il bandierone dai finestrini della sua Fiat 850.
Non soltanto nella società, ma anche nel calcio, pensiamo, il vento sta cambiando.
Mai giudizio fu più illusorio! Anche se nel mondo reale, in effetti, le cose, in quei giorni, sembravano aver imboccato la giusta strada.
Sin dall’inizio dell’anno, infatti, c’erano state dimostrazioni e scioperi degli studenti, proteste che sembravano non poter che espandersi a macchia d’olio.
Nel triangolo industriale anche gli operai iniziavano a scioperare e nelle fabbriche si faceva strada un nuovo modo di porsi dinanzi all’autorità interna.
I capi reparto iniziarono a guardarsi sovente le spalle.
Per quanto riguarda i nostri cortei di allora, quelli degli studenti, che pur gridando “studenti-operai-uniti-nella-lotta” erano ancora soli soletti, erano del tutto diversi da quelli che nei nostri anni hanno visto contrapporsi forze dell’ordine e no-global.
Differenti anche da quelli della metà e fine anni settanta, quando l’Autonomia era una realtà organizzata e gli scioperi momenti strategici d’attacco allo Stato.
Quelle prime nostre dimostrazioni erano semplicemente lo sfogo di ragazzi che chiedevano di avere la speranza di vivere la loro vita diversamente da quella, operosa ma triste e grigia, dei loro padri e delle loro madri.
Questo almeno all’inizio, prima che Celere e CC spazzassero via ogni illusione, caricandoci e picchiandoci, trattandoci, insomma, come nessuno prima aveva mai fatto, neppure le nostre famiglie.
Allora in noi, figli del boom economico, scattò un meccanismo di rivalsa, d’onesta vendetta, di ripicca personale, come di chi, dopo aver visto per la prima volta i colori per pochi attimi, è bendato di nuovo per il resto della vita.
Cominciammo allora ad organizzarci.
Cioè iniziammo a capire che dovevamo opporre qualcosa di nuovo allo strapotere di chi derideva i nostri capelli già lunghi, i nostri jeans scritti a penna e le nostre aspirazioni per un impossibile mondo nuovo.
Lotta Continua nasce così tra l’estate e l’autunno a Torino. S’incontrano al suo interno studenti provenienti dall'Università di Trento, della Cattolica di Milano, dalla Normale di Pisa e operai delle carrozzerie di Mirafiori.
La sua storia si può grossolanamente dividere in due parti: fino all'ottobre 1972, periodo in cui le attività dell'organizzazione furono sempre poco strutturate e spesso lasciate allo spontaneismo e dal '72 in poi, quando L.C. si avviò verso una vera e propria "istituzionalizzazione", che la portò, nel gennaio del 1975, a strutturarsi come un partito.
Ed è in ottobre che si concretizza il processo iniziato in estate, principalmente per iniziativa del Potere Operaio di Pisa, dove militavano Sofri e Pietrostefani, del Potere Proletario di Pavia, del Movimento Studentesco di Torino, di Milano e di Trento.
Nella galassia dei gruppi rivoluzionari sorti dopo il Sessantotto (tra cui Servire il popolo, Avanguardia operaia, Potere operaio, il Manifesto), Lotta continua rappresentò l'anima libertaria e spontaneista.
Chi conobbe quella prima L.C. ed aveva già altre idee, prese subito strade diverse; quelli a cui quelle idee vennero da lì a pochi anni, ne uscirono per aderire ad altre organizzazioni.
In quanto a Sofri devo dire che non ha mai goduto delle mie simpatie. Allora consideravo Adriano spocchioso e distante, il prototipo dell’intellettuale che gioca a fare il rivoluzionario, che si finge schivo per essere più ricercato.
Più tardi poi, quando già le nostre strade si erano divise da tempo, mi schifò molto il suo approdo alla Corte dei Miracoli craxiana, con lui e Martelli a sputacchiare metaforicamente sui passanti dall’alto del loro balconcino della politica.
Ma oggi che Adriano è in galera da anni per un qualcosa che con molta probabilità non ha fatto, oggi che cerca di sopravvivere con coerenza ad una pena che sembra non debba finire, oggi, finalmente, riesco ad avere rispetto per lui.
In lui, lo riconosco, rivedo un po’ me stesso: un uomo invecchiato, ma ancora con la voglia di capire, di comunicare, di ricordare e far ricordare.
In quegli anni, non soltanto tra noi, ma nell’intera società, iniziavano a serpeggiare sentimenti di rivolta e di rivalsa, che in breve ci convinsero della necessità di spostarci sullo stesso terreno sul quale ritenevamo stesse già camminando l’avversario di classe.
Ripensare a quel periodo cercando di capire, significa calarsi in quel clima, in quel vento culturale che spazzò tutta la società, che coinvolse i nostri padri ed i nostri fratelli, al pari di tutti noi.
I freni venivano allentati, le vecchie regole messe in discussione, la nostra sollevazione diveniva quotidianità, accettata e discussa in tutte le nostre famiglie.
La violenza politica intesa come insubordinazione totale divenne la consuetudine.
Nonostante tutto ciò, L.C. prese sempre le distanze dagli episodi di terrorismo che si succedettero in quegli anni. Noi c’illudevamo, banalmente, che bastasse scendere in piazza, che bastasse criticare l'autoritarismo, eravamo mossi dall’insana voglia di rivoluzionare le strutture del sistema sociale e non sapevamo niente di politica e di scontri sociali, di Marx e di Lenin, di petrolio e multinazionali.
Ci limitavamo a rilanciare nella vita d’ogni giorno gli slogan che gridavamo nei cortei, pensavamo alla Cina come alla genesi del nuovo mondo e là, intanto, migliaia di comunisti erano passati per le armi, come trenta anni prima era successo nella Russia stalinista.
Volevamo fare la rivoluzione, ma eravamo soltanto dei contestatori.
E da bravi critici, poi, molti di noi hanno voluto provare l’ebbrezza del ponte di comando.

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