Autoanalisi

Ricordare per poter comunicare.Quello che abbiamo vissuto senza pentimenti e capriole, nè in politica, nè in privato. Molto amore, molta passione ed una spruzzata di fortuna, per noi che avevamo vent'anni in quegli anni.

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martedì 19 aprile 2005

Qui giunse straripando…

Tutto l’autunno di quell’anno fu particolarmente piovoso, ottobre lo fu in maniera particolare e l’ultima settimana è poi rimasta negli annali quanto a millimetri d’acqua precipitati.
Il 4 novembre, all’epoca, era festa nazionale.

Sono le cinque.
Nel sonno cercano di entrare voci.
Di fuori… dà di fuori… cos’è che è di fuori?
Io. Io sono già fuori del letto quando concretizzo: l’Arno sta straripando.
Come? Dove? Forse alla Carraia o agli Uffizi… sono le frasi smozzicate che intercorrono tra mio padre e mio zio che sta al piano terra. Venite giù, l’acqua corre per la strada… Marcello è corso per via dei Leoni… ora torna… portiamo su la roba…
Poco dopo siamo in giardino, fuori della porta già ci saranno dieci centimetri d’acqua, limacciosa e già piena di piccoli detriti.
Non ci sono suoni, solo un mugghio lontano ed un cielo grigio di pioggia.
Cominciamo a portare su per le scale quello che è possibile, mobilia, indumenti… tutto questo non ha senso… com’è possibile che il fiume stia straripando? Da sempre siamo abituati a vedere le piene d’Arno o magari a sentire al Bollettino Toscano che qua e là le acque hanno invaso questo o quel campo, ma noi siamo in città… com’è possibile che nessuno abbia detto nulla? E che non si senta una sirena… i pompieri dovrebbero già essere al lavoro… ma che sta succedendo?
Torna mio cugino, faccia scura, bagnato sino all’inguine: non si passa, l’acqua esce dai parapetti, via dei Neri è già un torrente in piena commenta, mentre tenta il salvataggio di una poltroncina da camera.
L’acqua è salita velocemente, filtrando dalla porta d’ingresso del giardino ha gia inondato il porticato che è più basso… abbiamo messo delle panche della chiesa e le utilizziamo come passerella.
Sono le sei e trenta circa. Gli altri inquilini del caseggiato sono tutti alla finestra. Improvvisamente la pressione dell’acqua vince la resistenza del portoncino… è uno schianto assurdo in questo silenzio ovattato, il ruggito di una fiera… diciassette metri è la lunghezza del giardino… in fondo appare un muro d’acqua marrone… rimango con la gola strozzata… c’è mio padre ancora nella casa… urlo… mi viene da vomitare, mentre lo vedo saltare tre secondi prima che l’acqua passi repentinamente da venticinque centimetri ad un metro.
Siamo tutti ammassati sulla prima rampa di scale… ma come è possibile… questo mostro si sta mangiando gli scalini ogni cinque, dieci secondi.
Dopo mezzora siamo già al primo piano.
Ora la strada per arrivare al nostro appartamento è tagliata per tutti gli altri inquilini.
Il giardino ribolle.
Le piante in vaso sono scomparse, rimangono gli alberi.
Qualcuno comincia a piangere… si sentono i primi lamenti, lontani, più increduli che terrorizzati.
Siamo affacciati alle finestre della biblioteca del primo piano, un muro ci divide dagli altri appartamenti. Di là ci sono tre persone anziane.
Non sappiamo che fare, gli attrezzi da lavoro di mio padre a quest’ora sono un bel pezzo sott’acqua.
Improvvisamente un altro schianto, più lamentoso, come di metallo piegato, contorto, schiacciato da un peso incredibile.
E’ saltata la cisterna del gasolio, riempita giusto tre giorni fa.
Dalle cantine inizia a fuoriuscire una macchia nera, unta, densa come colore ad olio.
Nero su marrone, in ghirigori sempre più ampi… e questo freddo che ci prende ai piedi ed alla gola.
Il rombo è aumentato, l’acqua sale senza posa.
I vecchi pregano e piangono, per me è uno spettacolo terrificante: questi ci affogano sotto gli occhi, ma i grandi che fanno?
Tutti dobbiamo fare qualcosa… babbo che si fa?
Ho un mazzuolo -risponde- in quella cassa c’è una baionetta -cimelio dell’ultima guerra- in casa ci sono i cacciaviti grossi, valli a prendere, corri!
Dai, dai, svelto che bisogna sfondare questo cazzo di parete!
Questo suo pronunciare quella parola, così forte, così aspra, aumenta il mio panico, se perde la calma lui, lui che si perita a dire stupido, che potrò fare io?
Si comincia, con foga, con paura, senza metodo.
Aggrediamo il muro con disperazione.
Viene giù l’intonaco e poi appaiono i mattoni, se Dio vuole sono foratoni murati per ritto; ed allora si sfonda più che forare, ci diamo il cambio con il mazzuolo, la baionetta serve a poco.
Abbiamo aperto uno spiraglio, ma non si vede la luce, si sentono le voci, ma niente luce.
Un armadio, siamo proprio fortunati, ci mancava questa, oltre al muro c’è un armadio a separarci dai coinquilini e l’acqua è già al pianerottolo.
Si batte, s’impreca, mia zia piange, io ho mal di stomaco. Altro che esami! Qui si muore come nei film, anzi peggio che nei film.
Mi tremano le mani, anzi tremo tutto.
Abbiamo aperto un pertugio… basterà? Ce la faranno? Devono farcela, ora devono farcela.
Passano, passano, mezzi morti di paura, ma passano.
Portateli su, dategli delle coperte, dategli da bere.
Come si fa a consolare chi sta per perdere tutto?
Dobbiamo arretrare, l’acqua ci bagna le scarpe.
Guardo i libri della biblioteca: Bibbie del settecento, trattati filosofici del secolo scorso… le ritroveremo? Come li ritroveremo? E’ la prima volta che li vedo veramente, sino ad adesso facevano parte del mio mondo consueto, accessori dei miei obbligatori corsi teologici, delle mie “scuole domenicali”. Ora mi sembrano animali che si divincolano dietro i vetri della libreria: sanno di dover morire e non capiscono come noi non gli andiamo incontro.
Siamo al gradino più basso dell’ultima rampa di scale.
Noi in quel momento non lo possiamo immaginare, ma quello sarà il record raggiunto dal fiume.
Saliamo in casa e nell’assurdità della cosa iniziamo a sistemare le scale sul tetto per salire ai tetti superiori. Siamo a più di dieci metri, ma oramai la realtà si è incrinata e non ci sono più barriere ad arginare la paura.
Ora giungono distintamente, e fanno accapponare la pelle, le grida di chi sta due numeri civici più in basso verso S.Croce, case poco elevate e senza abbaini. Uomini e donne si salveranno, ma quando verranno ripescati saranno quasi del tutto assiderati.
L’acqua è un manto nero.
Il cielo è una cappa grigia.
La cancellata è stata sommersa, ora davanti a noi è soltanto un grande spiazzale nero.
Passano le auto trascinate come fuscelli, alberi, suppellettili.
Improvviso il suono della campana del Bargello, quella che si era sentita soltanto per l’entrata in guerra.
Un suono sconvolgente; la campana, fessa da un lato, al deng risponde con un dooon cupo e prolungato.
Nel cielo ancora non si è visto un elicottero, siamo soli, abbandonati in mezzo a questo cataclisma e le nostre vite non saranno mai più le stesse.
Oggi siamo morti, morti anche se sopravviveremo.
Firenze è morta e come per il Vajont o per il Polesine, tanti di noi oggi rimarranno orfani dei padri o della loro gioventù.
Oggi siamo tutti un po’ più deboli ed un po’ più vecchi.
Siamo sul tetto, quando vediamo arrivare un canotto microscopico con un vigile del fuoco. Urla per vincere il fragore della corrente… capiamo che chiede se abbiamo bisogno d’aiuto e nel frattempo si avvicina pericolosamente alle punte di lancia della cancellata, sommerse da poco più di dieci centimetri d’acqua.
Via… vattene… si fora il canotto… non capisce, anzi si avvicina per comprendere meglio.
Ci sgoliamo… va via… va via… hanno bisogno all’angolo, noi no…
Finalmente si lascia trasportare dalla corrente e scompare dal nostro orizzonte.
Passa un’Ape capovolta e non lo travolge per una manciata di secondi.
E’ passata l’ora di pranzo e quella della merenda.
Che parole strane oggi.
E’ buio, tutto è buio.
I telefoni si sono ammutoliti sin dalla prima mattina.
Forse l’acqua non sale più.
Un elicottero volteggia sulle nostre teste, sono le quattro del pomeriggio.
Salgo e scendo le scale per andare a controllare l’avanzata del fiume. Mi casca la pila nell’acqua, mio padre mi farà una sfuriata, infilo il braccio in quella melma nera e maleodorante: è fredda come mai ho sentito l’acqua fredda.
Il livello è stabile, anzi inizia a decrescere, forse stanotte riusciremo a chiudere un occhio.
Nel buio, alla luce delle candele ci accampiamo.
Domattina riusciremo a ricominciare? E Firenze come sarà?
Ed il magazzino del babbo, il bar dove lavora mamma ed il mio mondo esisteranno ancora?

Il giorno dopo è come il giorno prima, ma non c’è più l’acqua, c’è il fango… tanto fango.
Fine come limo, sporco come la notte, segnerà le facciate delle case per anni, spesso per un intero decennio. Segnerà e sporcherà anche tutti noi, che torneremo a lavarci adeguatamente i corpi soltanto in estate, ma che non smacchieremo mai più la nostra anima.
Proviamo a scendere, ma non è facile.
Le scale sono ricoperte di mota, lurida e scivolosa.
Puliamo alla bene e meglio mentre scendiamo.
Il giardino non esiste più.
Solo due alberi sono ancora lì, neri come la pece, agonizzanti.
Abbiamo un solo paio di stivali e spalare questa melma appare impossibile senza attrezzi. Fuori ancora non si muove niente.
Nel cielo tornano a volare gli elicotteri militari. Ci sembra un ronzio fastidioso ed inutile.
Abbiamo già sete. Siamo tanti in casa mia ed abbiamo soltanto due bottiglie d’acqua minerale.
Sembra impossibile, ma siamo già precipitati in piena preistoria.
Rimarremo poi per mesi senza acqua corrente.
E da quel giorno Firenze berrà soltanto minerale.
Durante quella lunga giornata circolarono soltanto i mezzi anfibi dell’esercito e così fu il giorno di poi.
Il terzo giorno, come nostro Signore, provammo a resuscitare e seppure con non poche difficoltà, cominciammo a farci un’idea della realtà.
La Firenze del tre novembre non esisteva più.
Non esistevano più neppure i fiorentini che quella città avevano vissuto.
Ora c’era una massa cenciosa, sporca, disperata che iniziava a cercare di recuperare le parti disperse della propria vita. Ma quegli uomini e quelle donne inzaccherati, infagottati in panni dai colori oramai improbabili, che camminavano come ciechi cercando di non cadere, fecero vedere al mondo -e se questa è retorica, retorica sia- che si può riconquistarsi il diritto a vivere, anche quando tutto sembra destinato a perdersi.
Non dico che non piangemmo, al contrario lo facemmo spesso e con rabbia, ma la voglia d’essere più forti di questo maledetto destino ci fece imbracciare pale e picconi e bestemmiando, come nessun altro al mondo sa fare, decidemmo che volevamo tornare ad essere esseri umani.
Il mondo ce lo avrebbe riconosciuto anni dopo, quando per noi oramai questo non significava più niente.
Anche io misi fuori la testa dalla tana.
In Piazza S.Firenze arrivavano le autobotti dell’acqua potabile e si doveva andare a fare la fila per riempire le taniche. In Palazzo Vecchio iniziò la distribuzione della pasta, del pane e della farina.
Tutte queste incombenze spettarono a me.
Il ricordo è quello di un mondo crepuscolare.
Novembre già di per sé non si distingue per irraggiamento solare, figurarsi poi che luce potevamo avere in quelle giornate piovose, in assenza di corrente elettrica, con le strade già alle cinque del pomeriggio illuminate dalle fotoelettriche dell’esercito, almeno nel perimetro adiacente a piazza della Signoria.
Quei giorni, nel ricordo, sono tutti uguali nella loro diversità.
Più mi allontanavo da casa più si rinnovava la scoperta della nostra rabbiosa desolazione.
Dalla periferia risparmiata cominciarono ad affluire verso le zone maggiormente colpite i parenti, che recavano viveri e generi di prima necessità. A darci un aiuto arrivarono da noi sin da Udine, dove avevamo lontani parenti.
Sui loro volti angosciati riconobbi la nostra disperazione, come anni più tardi, era il 1976, sarebbe successo a noi visitando loro a Gemona o Tolmezzo, rase al suolo dal terremoto.
Firenze era stata seviziata, stuprata, violentata ancora una volta come nel passato era già accaduto.
Questa non era più, però, la città medioevale o quella rinascimentale, questo era il museo a cielo aperto che la moderna società contemporanea mostrava orgogliosa ai turisti di tutto il mondo. E da tutto l’emisfero giunsero quelli che sarebbero stati definiti gli Angeli del Fango, migliaia di giovani, italiani e non, che si prodigarono per mesi, cercando di salvare quante più opere d’arte fosse possibile.
Ma Firenze non è soltanto gli Uffizi, S.Croce, le chiese ed i musei, ma anche i grandi mercati della carne, della frutta e verdura, le mille botteghe di alimentari che ancora allora esistevano. Quei luoghi iniziarono ben presto ad ammorbare l’aria: a S.Lorenzo l’esercito usava i lanciafiamme, tonnellate di carne si andavano putrefacendo e quell’odore nauseabondo si legava intimamente a quello dei fanghi che, lentamente, andavano asciugandosi.
Dapprima giravamo con le mascherine distribuite dalle Forze armate… poi ci abituammo.
Mio padre tornò ad essere un reduce di guerra: la violenza delle acque aveva travolto il magazzino ed il contenuto era pressoché inservibile. Mia madre iniziò a ripulire il grande bar e molte confezioni finirono sulla nostra tavola… d’altra parte niente bar, niente salario.
Lo Stato, dopo non poche titubanze, avviò la macchina degli aiuti.
A poco a poco le cose così iniziarono a migliorare e l’umore della gente cominciò a risalire la scala dei valori.

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