Autoanalisi

Ricordare per poter comunicare.Quello che abbiamo vissuto senza pentimenti e capriole, nè in politica, nè in privato. Molto amore, molta passione ed una spruzzata di fortuna, per noi che avevamo vent'anni in quegli anni.

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martedì 8 febbraio 2005

Firenze, oh cara!

Quando si nasce in una città come Firenze se ne rimane dominati per tutto l’arco della vita, a maggior ragione se si viene al mondo ai piedi della roccaforte romana che delimitava il primo quadrilatero.
Dell’essere e del sentirsi fiorentini molto si è detto e scritto, o almeno tanti di noi, cittadini dell’Ombelico del Mondo, hanno creduto di aver raccontato.
Ma all’interno di questo comune modo di sentire determinato dal nostro Dna, stanno mille vite diverse ed ognuno di noi crederà di aver vissuto la propria in maniera originale e senza uguali.

La mia Firenze, nonostante tutto, era ancora quella degli Sthendal e dei Pratolini: lo stupore della bellezza temperato dal carattere volitivo ed un po’ stizzoso della sua plebe.
Per le strade, sulle rotaie del tram, facevano ancora bella mostra di sé gli escrementi dei cavalli asserviti alle carrozzelle che portavano a spasso la borghesia straniera in visita.
Erano questi, ancora e soltanto, turisti facoltosi, ospitati da hotel che si ammantavano esclusivamente del fascino dei propri nomi ed a cui ancora non serviva l’attribuzione del primato delle quattro o delle cinque stelle.
L’ideale ombra della fortezza capitolina, sfiorando la rocca del Bargello e le arcate del chiostro, delimitava i confini del mio mondo.
Sono nato tra l’arte, ma l’ho vissuta come i gatti vivono i Fori Imperiali.
Eravamo, insomma, gli eredi degli Dei decaduti e neppure lo immaginavamo.
Di quella casa, di quel chiostro, di quelle cantine ricordo soprattutto i tanti misteri e le molte paure, paure che la mia fantasia generosamente alimentava. Avevo timore del buio delle antiche celle dei monaci, prima trasformate in laboratorio di falegnameria e poi in deposito per la legna da ardere, il cuore batteva dinanzi ai pertugi nei muri, che esplorati con le torce elettriche, rivelavano così altre stanze mai aperte e preoccupazione mi suscitava il rossore guizzante proveniente dallo scantinato, in cui ronfava o ruggiva la caldaia comune.
Sotto il giardino, che un tempo doveva essere stato semplice cortile, passava poi il collegamento tra l’ex convento e l’ex carcere del Bargello: la rarità di quel passaggio, murato dalla milizia fascista prima della guerra, rappresentava l’essenza stessa di quel mio abitare particolare. Ma che questo mio vivere quotidiano fosse differente dalla norma, mi fu chiaro soltanto quando amici e compagni di scuola cominciarono a frequentare casa mia, sempre pronti a chissà quale avventura, a chissà quale avvenimento.
Di là dalla cancellata che delimitava questo mio mondo rinascimentale, fluiva la vita del quartiere: il rumore dei barroccini dei souvenir apriva la giornata, il rumore dei camion dei corrieri la chiudeva, mentre le ore rintoccando dal Duomo e dalla Badia segnavano il nostro tempo.
Il silenzio, al mattino, era rotto dal parlare dei bottegai che si avviavano ad aprire i loro negozi e da quello degli operai che s’incamminavano al lavoro, ma, soprattutto, da quello dei bambini che andavano a scuola.
I negozi, da cui la mia città ha sempre tratto la linfa, erano ancora quelli degli artigiani e dei piccoli commercianti, che cumulavano i crediti sui quaderni di scuola dei figli, in un patto non legalizzato con chi aspettava la paga a fine settimana o a fine mese.
Quei negozi, è superfluo dirlo, non esistono più da tempo; neppure i più aristocratici, né quelli che sembravano parte inseparabile dell’ambiente, quelli che, quando chiusero, portarono con sé anche un po’ di tutti noi.
In Piazza S.Croce, tra una partita di pallone ed una baruffa, ci spellavamo le ginocchia sul breccino e le biciclette, a volte, avevano i cerchioni nudi.
Il latte si andava a prenderlo con la bottiglia vuota, il ghiaccio bruciava le mani anche con i guanti, quando dovevamo fare il cambio alla ghiacciaia.
Dal fornaio si attendeva per prendere la schiacciata fumante e bastavano pochi spiccioli; sotto l’arco di S.Piero nel semel, la rosetta papalina, facevamo mettere il sangue di maiale appena rappreso sulla piastra rovente e l’ampiezza della spolverata di parmigiano che lo accompagnava ne determinava la bontà.
Al mattino, dovendo essere per mia madre uno scalino sopra i miei coetanei, nel latte ricevevo la doppia cucchiaiata d’Ovomaltina che, si diceva allora, doveva dar forza. Era, in realtà, la prima dimostrazione di sottomissione delle famiglie operaie alla nuova reclame martellata dai Caroselli televisivi.
Si, perché intorno alla quarta elementare anche in casa mia apparve il glorioso carrello porta -televisione, con apparecchio annesso.
Il mattino trascorreva alle dipendenze del vecchio maestro, regolarmente munito di gabbanella nera e righello punitivo.
A pensarci oggi sembra di rivedere quei film in bianco e nero che passano a tutte le ore durante la programmazione estiva.
La scuola, rigidamente maschile, guardava alla Badia, alla Torre Guelfa ed alla Casa di Dante. Noi occupavamo i rigidi sedili dei banchi prebellici, di cui ricordo con nitidezza i calamai ed i porta penne. Non ci toccarono le aste, è vero, ma paginate di vocali schizzate d’inchiostro certamente si. E poi tutti in fila militare sul terrazzo a consultare, tra le deiezioni di piccione, la mitica stazione meteorologica, con annessa targa indicante l’anno dell’era fascista in cui era stata donata alla scuola.
L’eclatante alternativa era il gioco delle bandierine, dove i più scafati di noi, al solito, ottenevano i migliori risultati, relegando i figli degli aspiranti piccolo borghesi al ruolo di comprimari. I miei calzoni corti all’inglese ed il fiocco con abbinato colletto bianco giornalmente inamidato, mi relegavano di diritto in quella categoria.
Il pomeriggio era la mia rivincita.
Il campanello di casa trillava più volte, erano ora gli altri a cercare di ottenere un posto in prima fila in quel giardino che a noi sembrava un parco divertimenti.
I perimetri delle aiuole, di roccia spugnosa, divenivano Texas ed Eldorado, le folte piante grovigli amazzonici o boscaglie nord americane. I miei soldatini completavano l’effetto Cinemascope. Con il cuore in gola facevamo combattere quegli indiani e quei cow boy, quasi dipendesse da noi la loro reale esistenza ed ancora non sapevamo niente di sangue e violenze, di riserve e di colonizzazioni forzate.
In quel giardino, esotico quanto nemmeno Paolo Conte avrebbe potuto immaginare, ho provato le prime emozioni sentimentali, quelle che ti lacerano l’anima con la loro inconsistenza, tanto leggera quanto acuminata.
Una bimba dall’essenza originale, scrisse il suo nome sul libro della mia esistenza, dando l’imprinting al mio mondo sentimentale ed oggi, come succede a tutti i veri primi amori, ancora è là nell’orizzonte del mio vivere quotidiano.
Lei e suo fratello, suo padre ed il loro nonno, m’insegnarono poi, quando potei capire, che cos’è la dignità, la profonda, rara qualità che ci vuole rispettosi di noi stessi e degli altri.
Il giardino fu poi spazzato via dalla pazzia dell’Arno e gli architetti vanitosi che lo ricostruirono in seguito, lo fecero senza emozioni.
I soldatini finirono regalati o in soffitta, nuova vergogna di un adolescente.
La ragazzina della bici rossa fu allontanata dal vento della vita, che per tanti anni è in seguito soffiato, prepotente e ribelle, nel mio cervello.
Gli anni settanta bollarono tutti noi: eravamo convinti di essere gli Adamo ed Eva della nuova società, l’originale confine tra il possibile ed il desiderabile, tra l’ottenuto e l’ottenibile. Naturalmente subito.
Firenze si fece rossa di bandiere, l’aria si riempì di sirene, si respirava dietro un fazzoletto, uno spicchio di limone in bocca.
Noi dovevamo fare.
Cosa? Tutto e forse il contrario di tutto.
Quei giorni intensi, se appena chiudo gli occhi, li ritrovo lì, vividi come fossero trascorsi soltanto pochi minuti. Non sapevamo niente e non c’interessava più di tanto. Eravamo in credito e volevamo un anticipo; sembrava impossibile che ci fosse qualcuno che si opponeva a questo.
Firenze furono allora soprattutto piazza della Repubblica, piazza Strozzi, i Viali e gli archi della città risorgimentale. Là c’inseguirono e ci bagnarono, ci ottenebrarono gli occhi e ci colpirono le reni. Qualcuno conobbe Borgognissanti, i calci ed i pugni, le lacrime ed i tardivi pentimenti di comodo.
Superammo tutti quel periodo, ognuno a modo nostro.
In Piazza Signoria s’incominciarono a vedere le vesti arancione dei seguaci del Guru di turno, il verde degli eskimi iniziò a diradare, in una sorta d’autunno rivoluzionario.

I colori della passione potevano anche avvizzire, ma gli aromi della vita rimanevano gli stessi.
Ogni periodo di quella Firenze che cambiava attiva ancor oggi in me un ricordo olfattivo: all’inizio i profumi del giardino, dal gelsomino alle “belle di notte”, dalla vite centenaria all’oleandro, poi la piacevolezza intensa del profumo del caffé proveniente dalla torrefazione all’angolo e l’odore della frutta o del pesce al Mercato centrale, cattedrale del gusto fiorentino.
La memoria della fragranza dei biscotti della Premiata Ditta Digerini e Marinai, che noi compravamo sciolti e difettati per risparmiare, ancor oggi mi produce un’immediata maggiore salivazione, in un flashback in cui appaiono enormi sacchi traboccanti di frollini.
La mia città era l’effluvio emanato dalle siepi di bosso dei giardini di Boboli, l’odore di terra bagnata e muschio, il profumo della borracina delle sue fontane antiche. L’ aroma dolce e struggente dei “duri”, del nocciolato o del torrone sulle bancarelle della Festa del Grillo.
Poi fu soltanto l’acre puzzo dei lacrimogeni e del nostro sudore di giovani uomini in fuga.

Gli anni trasformarono Firenze ed ampliarono obbligatoriamente la mia conoscenza toponomastica. Per conoscere mio fratello adottivo ho dovuto superare le Colonne d’Ercole del Villaggio di Don Mazzi, seguire gli argini dell’Arno, in quei punti sconosciuto, sguazzare tra il fango di nuovi cantieri.
Oggi Firenze ha fagocitato anche quelle rive, trasformando il passeggio dei vecchi nei nuovi percorsi dei corridori della domenica.
Anche le prime ragazze mi portarono a varcare la cinta cinquecentesca e qualcuna mi fece pure scalare le colline.
Il bar di Piazza Davanzati era diventato il nostro regno: ricevevamo nella saletta sottostante, come chiromanti, imponendo le mani sopra le tazzine del caffé.
Le ragazzine più giovani pensavano fossimo i veggenti del nuovo… eravamo soltanto i vati dell’abbandono scolastico.
La fortuna ed un po’ di furbizia tutta italiana mi aiutarono a superare maturità e servizio militare ed al ritorno riuscii anche a trovare lavoro senza troppi patemi d’animo.
Le Ferrovie dello Stato, poi, mi salvarono dal calvario di una vita da commesso di negozio al Porcellino ed io iniziai i miei anni da pendolare.
La casa in cui già abitavo e che era stata la dimora di una giovane coppia di pensionati della psiche, conobbe carattere ed abitudini di una nuova compagna.
In quella casa avevo vissuto paure serenamente condivise, che mi avevano reso insensibile alla passione. Il nuovo, invece, creò il caos, che forgiò a sua volta un nuovo modo d’intendere il mondo.
E la passione, com’è solita fare, generò.
Il primo fu un figlio maschio, il prolungamento di una specie che si stava spegnendo.
Furono gli anni della comunanza delle idee e della scoperta di nuovi luoghi dell’anima.
Fu la riscoperta di vecchi e nuovi giardini, di ludoteche e di barretti di periferia con annessi giochi per l’infanzia. Furono i golfini e le felpe dei negozi del centro, la presenza “militante” nella scuola materna e poi elementare.
Ma furono anche gli animali fantastici della Specola, le armature del Bargello, i segreti del Forte di Belvedere, cosicché i miei luoghi privati divenivano ora patrimonio familiare.
Mi osservavo così per la prima volta dall’alto, in una sorta di ritorno al futuro.
Avevo un figlio e Firenze era il suo parco giochi, la sua scuola di quartiere, il suo primo accostarsi alla generosa cattiveria di questa città.
Il Sud della metropoli era diventata la mia nuova patria: ero alle pendici delle colline e su quelle spesso fuggivo con tutta la compagnia. Ricordo il profumo delle ginestre, dei pini marittimi, ma anche la paura ad avventurarsi sui prati nei giorni angoscianti di Cernobil.
E poi le feste sul lungo fiume dell’Anconella, mentre il PCI si trasformava in Quercia e l’impegno dei volontari era sostituito dalle cooperative della ruota o del turacciolo ed il vecchio terrorismo declinava nell’inevitabile fine che aveva perseguito e che altri avevano pianificato.
Le vecchie fabbriche avevano chiuso ed i CPA che n’avevano preso il posto erano già oltre il loro zenit.
Si stava per chiudere anche la prima fase del nostro ciclo.
La mia Firenze iniziava ad asfissiarmi. I suoi Viali, come cloache a cielo aperto, emanavano sentore di piombi velenosi ed anche il pozzo del giardino di mia madre si era quasi del tutto seccato spandendo l’odore della sconfitta.
Il desiderio di fuggire alla Firenze caotica delle torme tartariche era diventata un’esigenza primaria.
Fu così che la seconda figlia ci forzò volentieri alla transumanza verso la campagna pistoiese. Là, lavorando, avevo iniziato ad apprezzare tutti quei silenzi che nella mia città non esistevano più.
Percorsi così nuovi vicoli, oltrepassai nuove isole d’ombra, sfiorai con le mani e con gli occhi l’arte longobarda del nuovo paese. Odorai, dopo tanto tempo, la fragranza delle rose di maggio e dei tigli in fiore. Udivo di nuovo, dopo anni, il suono dei miei passi sui vecchi lastricati.
Ciò nonostante non è stato semplice, come non lo è mai stato per nessuno, far l’emigrante, seppure di piccolo cabotaggio.
Nel tempo mi sono poi adattato ai nuovi ritmi, alla mancanza d’invisibilità a cui ero abituato, alla condivisione della noia.
Ora torno alla mia città come un turista e mi meraviglio delle code ai musei o della desertificazione del centro, dove gli anziani sono costretti ad acquistare come americani ed a sopravvivere come africani. Oggi la mia città rimane dentro di me, non semplicemente come un luogo geografico, ma come il posto dell’anima, la passione viola, il luogo ideale da ricordare e per ricordare. Insomma, lo scrigno ideale dove tenere nascosti ricordi ed emozioni, nell’attesa di lasciarli in dote ai miei figli

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