Immaturità sentimentale
“La prognosi per un soggetto maschio affetto da Immaturità Sentimentale è nella maggior parte dei casi infausta. A maggior ragione se la malattia ha recidive durevoli nel tempo, soprattutto in età avanzata. Il maschio soggetto a tale patologia soffrirà costantemente di mancanza di stabilità emotiva; castrazione delle relazioni passionali; mancanza d’autostima riferita alla sfera affettiva; asfissia degli affetti. E, soprattutto, inadattabilità ad integrarsi alla condizione di totale carenza di trasporto sentimentale. Allo stato attuale degli studi non esiste ancora nessuna cura che possa sradicare completamente la malattia.”.
L’amore, secondo lo schema culturale corrente, non si limita alla propria compagna, ma si sviluppa e si approfondisce nel più vasto ambito dell’amicizia. Non scopro niente, anche se molto da dire ci sarebbe sulla complessità di questo sentimento e sulle sue sfaccettature.
E’ sotto gli occhi di tutti quanto sia difficoltoso districarsi dalle difficoltà quotidiane del rapporto di coppia, ma è anche vero che non meno complicato è mantenere la stima e l’affetto per un altro uomo o per un’altra donna. Questo, soprattutto, perché conservare nel tempo un rapporto positivo con un altro essere umano, significa innanzitutto essere riusciti a sconfiggere la sfiducia presente nella nostra società, diffidenza quasi sempre determinata dalle debolezze e dalle insicurezze presenti in ognuno di noi. Ecco perché poi siamo condizionati ad operare verifiche e selezioni, a volte dolorose.
Se poi, per noi che siamo nati negli anni cinquanta, si parla d’amicizia al femminile, non si può trascurare un condizionamento culturale fondamentale, che ci trasciniamo, a differenza dei nostri figli, sin dalla gioventù. Per noi avere un’amica non può essere che il sottoprodotto di un amore passato, al quale, obbligatoriamente, si è dovuta sostituire la comunanza delle idee e del sentire.
Insomma l’amore, in ogni caso, rimane cosa difficile da ipotizzare ed ancor più gravosa da realizzare. In più io ho dovuto superare le insidie create dalla mia malattia. Quella che ha fatto sì che io vivessi i sentimenti sempre sopra le righe, con pochi equilibri, esaltandomi per le conquiste e deprimendomi per le perdite. Ho così cercato per tanti anni di allontanarmi dai miraggi del Vero Amore o dell’Amicizia Perfetta. Questo, almeno, era il punto d’arrivo. Nel frattempo, però, mi sarei semplicemente accontentato di raggiungere un minimo d’equilibrio, quel poco di armonia che mi permettesse di superare le incoerenze del mio mondo privato. Mi sarebbe bastato, in definitiva, trovare una soluzione transitoria che mi rendesse almeno sopportabili le contraddizioni di quella comunità di uomini e donne che quotidianamente frequentavo e che facevano della politica il loro centro di gravità permanente. Compagni che avrebbero voluto essere tra loro anche amici e che spesso non vi riuscivano.
Purtroppo, infatti, essere amici è qualcosa di più, ma anche qualcosa di meno della comune militanza.
L’amicizia dà conto, infatti, soltanto alla lealtà dei rapporti personali e non si deve confrontare necessariamente con il resto del mondo. Cosicché la confidenza, l’affiatamento, la familiarità che partono dalla testa possono fluire tranquillamente attraverso i sensi, trasportando in superficie sentimenti che non credevamo neppure di possedere.
Essere compagni significa, invece, aver stretto un legame che va ben oltre le reciproche simpatie, che traguarda l’umanità e non il singolo uomo e che dunque c’impone, a volte, di castrare i nostri slanci e le nostre passioni private.
Sembrano parole della nostra preistoria, ma era ed è così.
A peggiorare le cose, c’era poi il fatto che l’organizzazione su cui avevo investito mente e cuore, cominciava lentamente ad implodere.
Cosicché molti compagni, vista la difficoltà di un cambiamento della realtà per merito delle Idee e dei Progetti, iniziavano a parametrarla secondo i loro bisogni e le loro esigenze. Insomma, seppure in buona fede, la deformavano a loro uso e consumo. Si rintanavano nelle loro case e nei loro lavori per salvaguardare il loro stesso equilibrio, per dare una soluzione indolore alla loro scissione teorico-pratica.
L’organizzazione così si ritualizzava, i rapporti personali si cristallizzavano, la spinta emotiva si trasformava nel doveroso lavoro della conservazione, custodia indispensabile per tramandare ad altri, un giorno, la dottrina.
Così mentre mio padre coltivava il suo Dio incorporeo, io costruivo il mio Golem.
Mi assuefacevo, insomma, alla fede in un dio ateo, che faceva del lavoro e dell’applicazione il senso della sua liturgia.
Il Partito non è poi imploso, ma si è assestato appena sopra la soglia di sopravvivenza, come quegli organismi che riescono a sopravvivere anni ed anni sommersi da chilometri di ghiaccio. Per di più, in barba alle leggi sociali che prevedono che ogni comunità maggiormente si compatti alla diminuzione dei suoi effettivi, noi viviamo invece universi separati e perfino i nostri figli ci guardano con occhi particolari. Ma detto questo, sarebbe sicuramente egocentrismo pernicioso non serbare memoria di tutti loro in queste note, loro che sono e saranno comunque elementi essenziali per affrontare il mondo senza la pena della solitudine. Perché poi, in definitiva, rimane la necessità di tutti noi di sopravvivere a questo mondo disumano.
Concludendo: in quel momento particolare della vita sono riuscito a trovare nell’organizzazione uno scoglio in pieno Oceano e lì mi sono aggrappato. Forse lasciandomi andare nella corrente sarei annegato o forse sarei stato naufrago sulla classica isola deserta; certo la mia umanità avrebbe corso seri rischi di sopravvivenza. Là ero e là sono rimasto, anche se lo scoglio, oggi, non sembra più così salvifico come un tempo.
Tanto che ho ancora questo fremito alla bocca della coscienza, anche se riesco a mantenerlo sotto controllo con una certa facilità. Il medico, visitandomi, mi ha tranquillizzato, assicurandomi che quest’ansia dipende soltanto dalla mia malattia, per la quale non si è ancora trovata la giusta cura.
Allora Evviva, Evviva, sono un malato molto sano, tenacemente aggrappato ad uno scoglio e l’umanità è appena a ventimila leghe: poteva andare molto, ma molto peggio!
Pina
E’ evidente che all’imprinting sentimentale siano poi seguiti altri amori e altre illusioni.
Storie che hanno segnato il corso della mia vita o che, viceversa, lievemente sono scivolate via.
L’ultima disegna la mia vita d’oggidì, il mio vivere quotidiano, il punto d’arrivo della mia storia sentimentale.
Credo, infatti, che non potrò più varcare queste Colonne d’Ercole del Sentimento Conosciuto, questo confine che la realtà della vita impone e che il cuore ha scelto.
Parlare di quel luglio ’81, significa, in realtà, parlare dell’anima e della possibilità che questa, a volte, possa esplodere e lacerarsi, incendiarsi, trasformarsi e divenire feconda come un bosco carbonizzato. Quando il raziocinio ed il sentimento si danno le spalle, allora l’anima viene percorsa da miliardi di Volt fantasma e va in tilt. Io non sapevo neppure di avere un’anima, figurarsi se con la mia malattia potevo preoccuparmi anche di queste eventuali implicazioni!
Quell’estate avevo deciso di spingermi sino alle terre di Pitagora. Ma siccome l’avventura è bella, ma anche la comodità vuole la sua parte, pensavo di limitarmi alla costa tirrenica, dove già allora, si era sicuri di trovare comfort e ricca vita notturna.
Niente da fare.
La mia compagnia decise, al contrario, di volgere lo sguardo allo Ionio, dove meravigliose spiagge selvagge promettevano vacanze incontaminate, seppure con l’handicap di servizi prossimi allo zero.
La scelta cadde su Le Castella, affascinante fortezza aragonese circondata dal mare.
Ora se uno fosse andato a pensare che, caso nel caso, là avrebbe incontrato l’amore, si sarebbe fatta una grassa risata, giurando sull’impossibilità che queste cose possano avvenire.
Sempre che uno lo avesse pensato.
Ma io non lo feci.
Cosicché quella vacanza poté svelarmi che sino allora, in realtà, io non avevo mai conosciuto quel sentimento che poi ti lega per la vita, che ti unisce anche quando questa s’imbizzarrisce e vorrebbe scaraventarti a terra, cavaliere oramai non più sopportato.
Resta il fatto che da quell’incontro non ho mai più riprovato quelle sensazioni così forti e sarebbe dunque sciocco oggi privarsene, anche se la vita, per tutti, non è sempre rose e fiori.
Una premessa alla storia è d’obbligo: il colpo di fulmine è l’esatto contrario del sentimento ragionato. Questa banalità dovrebbero saperla tutti, ma pochi l’hanno sperimentata.
Il fatto è che quando ti innamori all’improvviso, quando hai il tuo love at first sight, in realtà la tua mente si disconnette e soltanto le reazioni chimiche automatiche che il tuo cervello dispone l’una dietro l’altra riescono a guidarti.
Come? Esclusivamente in base all’odore che emana la sua pelle, al colore dei suoi occhi o dei suoi capelli, al suono della sua voce, all’espressione di quella creatura meravigliosa che ti ritrovi dinanzi e che, assurdamente e misteriosamente, in una frazione di secondo, ha azzerato la tua memoria, facendo esplodere senza controllo tutte quelle emozioni che ti eri sforzato di mantenere serrate al tuo interno.
Dall’esterno gli altri vedono dinanzi a loro soltanto un involucro umano con la faccia stranita, che atteggia bizzarramente occhi e bocca e che gesticola senza ragione apparente.
Quello, più o meno, ero io dopo l’incontro con Pina.
L’undici luglio tornavamo sconvolti dal mare dopo quattro ore di sole canicolare.
Bocca e gola somigliano a carta vetrata. Lo stomaco brontola infelice, perché tra i succhi gastrici galleggiano tristemente soltanto pochi rimasugli di frutta di stagione, certo molto politically correct, ma dal volume irrilevante anche prima della masticazione.
Il corpo è in ebollizione, avendo dovuto patire la mancanza di una qualsiasi zona d’ombra su di una spiaggia chilometrica.
L’unica cosa che affiora alla mente è l’immagine di una meravigliosa doccia fresca.
Le nostre sono le uniche due tende del campeggio, nonostante il periodo già abbondantemente estivo. Al Camping degli Ulivi tutto invece era ancora provvisorio, tutto in completamento, in attesa dell’agosto e di una ipotetica stagione che sarebbe durata al massimo un mese. I simpatici padroni ci avevano delegato non soltanto l’uso della cucina, ma anche quello di guardiani, visto che il giorno prima ci avevano messo in mano le chiavi del cancello e se n’erano andati. E tornando rinfrescato e gocciolante, li vedo giustappunto ripresentarsi in compagnia di due ragazze.
Mentre li vedo venire verso di me penso che ho fame e che sarà il caso di andare a preparare degli spaghetti. Incrocio il gruppo e mi presentano: in quel preciso istante un altro nodo della vita si stringe.
Il cielo rimane azzurro, gli olivi verdi, il muro della cucina bianco, la mia macchina rossa, ma io… io i colori, non li vedo più.
Ridicolo, penserete voi.
Si, ridicolo per voi che non stavate cadendo dentro quegli occhi meravigliosi.
Io, invece, annaspavo come Alice che precipita nella tana del Coniglio Bianco e mi chiedevo dove stava scappando la mia vita, dove fuggiva il mio raziocinio, che, dandosi alla fuga giù, sempre più giù, faceva si che io smarrissi il senso del tempo e della realtà.
Credo che qualcuno mi abbia dato di gomito, perché all’improvviso ho pensato che dovevo invitarla a pranzo, trattenerla lì ancora un po’ di tempo.
Diciamo, per usare un eufemismo, che in quegli anni ho sempre avuto molta comunicazione con le donne, ma quella volta capii che la situazione era molto, ma molto più complicata. I miei occhi non si staccavano da lei, che, sarà stata la curiosità o la novità, rispondeva al mio corteggiamento lampo.
Ora in tutto questo deve entrarci il destino, anche se a me, francamente, questa del destino era sempre sembrata una bufala bestiale, creata ad uso e consumo di coloro che devono vivere continuamente in rimessa.
Più probabilmente il destino è una condizione di comodo che ci creiamo a posteriori per dare un significato alla nostra afflizione o alla nostra felicità, ovvero per giustificare i nostri atti, che non sempre sono rispettosi delle altrui esigenze. Ed a ripensarci oggi, effettivamente, mi accorgo di aver vissuto quei giorni, quei fotogrammi di vita, in maniera totalmente egoista, pensando soltanto ed esclusivamente a quello che sembrava il mio bene.
Gli altri erano scomparsi o al massimo fungevano da supporto al mio agire. E sicuramente avrò fatto male a più di uno.
Ma sta di fatto che io ero lì a dividere la pasta con lei, a parlare con lei, a bere con lei, a cercare di capire chi era lei, a chiedermi se ancora avrei potuto vivere senza di lei.
E più ci pensavo e più concludevo che no, senza di lei no.
Ed allora forza, muoviamoci, cerchiamo di conquistarla questa benedetta donna dagli occhi verdi.
Cosicché il giorno di poi, al mare, si tornano ad utilizzare le vecchie tattiche della tea-room, che prevedono nel nostro caso una mitica lettura collettiva della “Collina dei conigli”, con esibizione di tutte le penne a disposizione, comprese quelle prese in prestito dal pavone dell’appartamento accanto. Il tutto accompagnato dal classico comportamento disinibito stile sessantottino, ovvero parole in libertà, quintali di idealità nebulizzati e solidarietà femminista.
In definitiva un gran polverone di poca sostanza, ma di grande effetto.
Risultato immediato basso, ma splendide prospettive per il futuro.
Sennonché il terzo giorno era previsto, tragicamente, il rientro in patria.
E l’annodato gomitolo della vita s’ingarbugliò ancor più. Io decisi, temerariamente ed incoscientemente, di diventare un altro. Lei decise, imprudentemente e audacemente, di provare a divenire un’altra.
Da allora siamo una coppia, ci amiamo e ci graffiamo come a tanti accade, ma passiamo comunque insieme attraverso questi tempi difficili. I nostri figli ci vogliono bene, anche se, a volte, certo non ci capiscono. Ma questo a chi non succede?
Certo dicono che la vita ci plasma e ci rende diversi, ma la mia immaturità sentimentale me la fa sentire vicina come allora, anche se lei crede che questo non sia possibile.
Di lei, credo, non potrei fare a meno, come di quel sogno di libertà che mi porto dietro da sempre. E so che il suo, seppure apparentemente diverso dal mio, è vero amore, come tutta la sua storia accanto a me sta a dimostrare.
Gianni e Gianna
I miei primi amici, Gianni e Gianna, sono praticamente nati con me, insieme abbiamo frequentato gli stessi luoghi, contemporaneamente abbiamo creato i primi giochi.
Quando questa situazione capita, ed è ben rara, annulla poi qualunque Oceano Temporale la vita tenti di frapporre.
Avevamo casa mia come scenario, gli accordi segreti e le parole sussurrate come copione, noi tre bimbi trasformati in attori inconsapevoli della vita.
Un legame unico, osmotico, una fusione del sentire che non sarà più cancellata.
E se Gianni è stato il mio alter ego in più di un’occasione, quelle sentimentali comprese, è pur vero che la nostra amicizia non ha mai abbandonato il terreno del bon ton, io rispettoso dei suoi spazi per imposizione culturale, lui dei miei per disposizione naturale.
Credo che una sorta d’ammirazione sia valsa nei due sensi, ognuno di noi conscio dei propri limiti e desideroso di imitare le conquiste psicologiche dell’altro.
Almeno così penso e spero, visto che per me senz’altro lo è stato.
Gianni è stato molto di quello che avrei desiderato essere, ma credo che certe scelte, se scelte sono, non possano prescindere dalla formazione e dalle abitudini culturali.
Ed io ho sempre viaggiato molto al di sotto dei suoi livelli, anche se a volte credo di essermela cavata meglio. Con lui, come ho già detto, il rapporto è viscerale prima che intellettuale. Crescere insieme poi vuol dire anche somigliarsi un po’, specialmente per quella parte di mondo che attiene all’etica.
Le scelte di base permangono nel tempo, anche se le vicende di ognuno di noi hanno epiloghi diversi.
Con sua sorella è stata tutta un’altra storia.
Gianna è stata il prototipo del mio ridimensionamento sentimentale.
Lei è stata quella che mi ha involontariamente costretto ad imparare le tecniche che domano dolcemente l’amore per trasformarlo in vera amicizia. Innamorarsi bambini è pur sempre un guaio, specialmente quando il primo amore rimane a galleggiare poco lontano da noi nel lago della nostra coscienza. Per vivere queste storie dovremmo avere una nostra privata Delorian e la possibilità di lanciarla attraverso tempo e spazio. Ma visto che così non è, la nostra disciplina interiore c’impone di soprassedere, possibilmente senza covare tormenti cinquantennali. E’ che, a volte, nonostante il cuscino di piume premuto con forza, quel sentimento si rifiuta di essere soffocato ed urla e scalcia e si ribella.
E noi rimaniamo degli assassini mancati.
In effetti l’esperienza conferma che quando si è sufficientemente piccoli da non poter essere sedotti dal turbine dei sensi, si è indubbiamente al sicuro da tutte quelle pene, che poi, invece, la pubertà, l’adolescenza e l’età adulta ci proporranno, quasi appartenessero ad un ipotetico piano di studi per il nostro obbligatorio corso di Scienza della Maturità. Confesso che, a tal proposito, a suo tempo ho avuto modo di seguire vari corsi di recupero e non poche lezioni private, ma, nonostante ciò, la mia laurea devo ancora conquistarmela.
Certo è che da quando lei, la ragazzina della bici rossa, iniziò a farmi compitare, non ho più avuto un tempo della vita nel quale mi sia potuto sottrarre a quegli esami.
Penso che ognuno di noi, in realtà, abbia avuto queste stesse mie prime sensazioni.
Tanti batticuori che, in seguito, la vita ha apparentemente sepolto sotto altre ansie ed altri ricordi. Chiunque li avrà provati, avrà nondimeno notato che quelle particolari emozioni, più di tutte, riescono a sopravvivere nell’attesa della nostra maturità di cinquantenni.
Allora, e soltanto allora, il programma genetico che le governa sembra ridestarle, guidandole sino alla superficie del nostro sentire. Cosicché una mattina, una qualsiasi, magari andando al lavoro, mentre stiamo rimuginando su quanto potevamo avere dalla vita, quei sentimenti riaffiorano inaspettatamente alla mente e ci rendiamo conto, con lucidità, che siamo al famoso giro di boa, alla resa dei conti, allo zenit del nostro vivere algebrico.
E spesso concludiamo il nostro ragionamento ottenendo un segno negativo.
Ma la vita, che certo non bada alle nostre gioie o ai nostri tormenti, a volte ci porta in dote gli strumenti per resistere. Alcuni di noi, favoriti dalla sorte, si accorgono di possedere particolari qualità: la capacità di continuare a sognare anche con i piedi ben piantati per terra, la caparbietà di perseguire un fine per l’intera vita anche se questo pare impossibile da realizzare, la pazienza ed il controllo necessari per non soccombere a quest’impresa.
Io, fortunatamente, sono uno di loro.
Fabrizio
Fabrizio, mio fratello adottivo, l’ho invece incontrato a scuola, nel mio anno di costrizione.
Lui era tutto quello che sino allora non avevo conosciuto: veniva da un paese del circondario da me inesplorato, parlava uno slang diverso, tifava per una squadra diversa da quella di tutti noi fiorentini.
Apparentemente impacciato, a prima vista confusionario, risultava poi essere tipo tosto, con una mente più ordinata della mia, un giovane uomo aperto al nuovo, in crescita, mentre io già credevo scioccamente di aver raggiunto il massimo.
Calmo, metodico, pensava prima di parlare. Tutte qualità nuove per me, che mi ero sempre maldestramente buttato nella difesa di tutto, se quel tutto era attaccato.
Abbiamo iniziato a frequentarci ed a scoprire che ognuno di noi niente conosceva del mondo dell’altro. Abitavamo a non più di dieci chilometri, ma era come se fossimo sulle sponde opposte dell’Oceano.
Ho conosciuto i suoi nonni (ed i miei erano già deceduti) e suo padre e sua madre.
Ho incontrato, con lui, una “nuova civiltà”, quella della campagna, delle Case del Popolo e degli orti e poi quella dei quartieri dormitorio, quella dei militanti del vecchio PCI.
Pensavamo di contrapporci al loro tradimento, ma in realtà contestavamo soltanto età anagrafica ed esperienza di vita, per molti di loro figlia del compromesso e della viltà intellettuale.
Al contrario, quei suoi genitori berlingueriani, quei nonni odorosi di casa colonica, mi emozionavano positivamente. Mi gratificavano i loro apprezzamenti, o pur anche la corretta contestazione delle mie tesi.
Mi piacevano le parole di quei progenitori di un altro tempo e di un altro luogo, antenati che si amavano prima di sopportarsi, persone care come elfi e criceti. Ricordo intensamente il loro parlottare, il loro mangiare separati, i consigli dati come ordini.
I loro figli, genitori di Fabrizio, erano molto diversi dai miei.
Una madre molto aperta, generosa e diretta ed un padre apparentemente duro, ma dal cuore immenso, un uomo costretto in un ruolo esteriormente autoritario, caratteristica della quale
-sono certo- volentieri si sarebbe liberato, se costume ed abitudine, convenzioni e carattere non ve lo avessero inchiodato. Un compagno che non ci capiva e le cui idee non condividevamo. Ci scontravamo per immaturità, perché ancora non comprendevamo la profonda, indistruttibile, duratura onestà che lo muoveva e lo sosteneva.
Quelle caratteristiche le apprezziamo solamente oggi, noi finalmente cinquantenni, dinanzi allo sconquasso di una società senza regole e senza remore, senza alcun attaccamento alla dignità personale.
Fabrizio mi ha accompagnato, nel bene e nel male, in questi ultimi trentacinque anni, condividendo con me esperienze e speranze, angosce e delusioni ed ancor oggi capisce con esattezza i miei limiti e non li oltrepassa.
Insieme siamo stati sui prati di Boboli spartendo paure ed emozioni per i primi approcci con l’agognato altro sesso; insieme abbiamo affrontato i suoi ed i miei problemi quando quei contatti divenivano storie che speravamo serie; insieme abbiamo conosciuto la politica, quella dei lacrimogeni e quella delle interminabili riunioni; insieme abbiamo superato quelle incertezze che i tempi ci ponevano dinanzi, riunendoci quando tutti erano risucchiati dalla diaspora dell’ideologia.
L’uno all’altro ci siamo appoggiati e ci appoggiamo quando la realtà ci sospinge in un angolo, quando vorremmo che gli altri capissero cose per noi banali, ma che, evidentemente, risultano incomprensibili all’esterno.
Insieme vorremmo passare il domani, anche se oggi il sentirsi ed il confrontarsi è quasi diventato un lavoro, presi come siamo dall’inutilità della vita.
Tiziana
Di Tiziana ricordo invece che da sempre ha preferito altri, o forse che da altri è stata maggiormente attratta, pur sentendosi intimamente legata a me.
Francamente ancora non posso darle torto, preso com’ero allora dalle mie incertezze, dalla mia poca sapienza e dalla scarsa disponibilità a conferire certezze.
In realtà anch’io, come lei, allora cercavo “un centro di gravità permanente” e non sapevo (e forse neppure lei) quanto sarebbe stato poi greve quel peso.
La prima immagine è il suo pancione di gestante, faticosamente imprigionato in una tenda durante il più squallido campeggio libero che si ricordi a memoria d’uomo.
Là, sposa forse ancora felice, ho imparato ad ammirarla ed a condividere i suoi pensieri.
Quando le cose poi cominciarono a non andare più nella sua vita sentimentale io avrei potuto cercare di conoscerla meglio e meglio farmi conoscere, tentare insomma di avvicinarla sentimentalmente, perché condividevo certe sue ansie, certe sue irrequietezze.
Ma la distanza che la vita aveva creato fra noi era ancora troppa ed eccessive erano ancora le sue speranze e le sue aspettative. Tutte attese da realizzare con qualcuno che certo poteva offrire più di me, mai come allora esitante del mio domani.
Ed in quel momento il mio sentimento cominciò obbligatoriamente ed inevitabilmente a cambiare. Avevo capito che seppure lei viveva la sua storia sentimentale con un altro, poteva diventare però il mio alter ego femminile, lo specchio attraverso cui poter continuare ad osservare la giovinezza dei miei sentimenti.
Insomma, certo l’uva forse non era così acerba, ma senz’altro era ad un’altezza troppo elevata per me.
Il tempo trascorso da allora ha ancor più affinato la nostra comune sensibilità, forse proprio in virtù della nostra obbligata lontananza, che s’interrompe magicamente ad una visita o ad una telefonata, occasioni che abbattono ogni barriera e che ci fanno sentire vicini come sempre. Forse tutto questo è soltanto l’aver sviluppato entrambi una tecnica psicologica di sopravvivenza o forse è soltanto aver capito che la notte è ancora lunga e che nell’attesa che passi, ogni cerino acceso può essere utile, specialmente se riusciamo a convincerci che ha la potenza di una fotoelettrica.
Gli altri
E poi ci sono stati gli amici e le frequentazioni della scuola; i compagni, ad esempio, della foto di quinta elementare, calzettoni e facce rubizze, cognomi che riconosci quaranta anni dopo in una targa d’ottone od in un’insegna di negozio. Li rivedi, ma sono soltanto deja-vu dell’era primordiale, fantasmi che vivono altre vite. Non gli appartieni e non ti appartengono più.
Crescendo stabilisci invece rapporti più raffinati, più approfonditi, condividi le scelte e selezioni: crei rapporti per affinità e non per tributo alle convenienze. Il tempo delle vacanze, ad esempio, viene gestito in una nuova comunanza d’interessi, così da sentirsi più adulti tra adulti. Ed il trascorrere del tempo fa si che gli indisciplinati, egoisti bimbi di un tempo, si trasformino così in avventurieri seri e ligi alle regole della fantasia.
Le prime esperienze, quelle che ricorderemo per sempre, quelle consumate su una spiaggia o ai piedi di un castello, assurgono così a senso della vita, si elevano a rituali magici di noi amici, noi compagni d’arme e d’avventura, noi soli gitanti fuori stagione, in caccia perenne di trofei sentimentali sulle spiagge dell’Isola Che Non C’è.
E poi verranno una nuova maturità e nuove passioni, nuovi e sconosciuti amici, verso i quali, a differenza del passato, si dovrà sforzarsi di avere limitate attese. Ma ciò nonostante la vita comunque tornerà a tentarci e la passione ci manderà in crisi d’astinenza, perché quelli come me devono sempre sperare oltre il lecito e il logico.
L’amore, secondo lo schema culturale corrente, non si limita alla propria compagna, ma si sviluppa e si approfondisce nel più vasto ambito dell’amicizia. Non scopro niente, anche se molto da dire ci sarebbe sulla complessità di questo sentimento e sulle sue sfaccettature.
E’ sotto gli occhi di tutti quanto sia difficoltoso districarsi dalle difficoltà quotidiane del rapporto di coppia, ma è anche vero che non meno complicato è mantenere la stima e l’affetto per un altro uomo o per un’altra donna. Questo, soprattutto, perché conservare nel tempo un rapporto positivo con un altro essere umano, significa innanzitutto essere riusciti a sconfiggere la sfiducia presente nella nostra società, diffidenza quasi sempre determinata dalle debolezze e dalle insicurezze presenti in ognuno di noi. Ecco perché poi siamo condizionati ad operare verifiche e selezioni, a volte dolorose.
Se poi, per noi che siamo nati negli anni cinquanta, si parla d’amicizia al femminile, non si può trascurare un condizionamento culturale fondamentale, che ci trasciniamo, a differenza dei nostri figli, sin dalla gioventù. Per noi avere un’amica non può essere che il sottoprodotto di un amore passato, al quale, obbligatoriamente, si è dovuta sostituire la comunanza delle idee e del sentire.
Insomma l’amore, in ogni caso, rimane cosa difficile da ipotizzare ed ancor più gravosa da realizzare. In più io ho dovuto superare le insidie create dalla mia malattia. Quella che ha fatto sì che io vivessi i sentimenti sempre sopra le righe, con pochi equilibri, esaltandomi per le conquiste e deprimendomi per le perdite. Ho così cercato per tanti anni di allontanarmi dai miraggi del Vero Amore o dell’Amicizia Perfetta. Questo, almeno, era il punto d’arrivo. Nel frattempo, però, mi sarei semplicemente accontentato di raggiungere un minimo d’equilibrio, quel poco di armonia che mi permettesse di superare le incoerenze del mio mondo privato. Mi sarebbe bastato, in definitiva, trovare una soluzione transitoria che mi rendesse almeno sopportabili le contraddizioni di quella comunità di uomini e donne che quotidianamente frequentavo e che facevano della politica il loro centro di gravità permanente. Compagni che avrebbero voluto essere tra loro anche amici e che spesso non vi riuscivano.
Purtroppo, infatti, essere amici è qualcosa di più, ma anche qualcosa di meno della comune militanza.
L’amicizia dà conto, infatti, soltanto alla lealtà dei rapporti personali e non si deve confrontare necessariamente con il resto del mondo. Cosicché la confidenza, l’affiatamento, la familiarità che partono dalla testa possono fluire tranquillamente attraverso i sensi, trasportando in superficie sentimenti che non credevamo neppure di possedere.
Essere compagni significa, invece, aver stretto un legame che va ben oltre le reciproche simpatie, che traguarda l’umanità e non il singolo uomo e che dunque c’impone, a volte, di castrare i nostri slanci e le nostre passioni private.
Sembrano parole della nostra preistoria, ma era ed è così.
A peggiorare le cose, c’era poi il fatto che l’organizzazione su cui avevo investito mente e cuore, cominciava lentamente ad implodere.
Cosicché molti compagni, vista la difficoltà di un cambiamento della realtà per merito delle Idee e dei Progetti, iniziavano a parametrarla secondo i loro bisogni e le loro esigenze. Insomma, seppure in buona fede, la deformavano a loro uso e consumo. Si rintanavano nelle loro case e nei loro lavori per salvaguardare il loro stesso equilibrio, per dare una soluzione indolore alla loro scissione teorico-pratica.
L’organizzazione così si ritualizzava, i rapporti personali si cristallizzavano, la spinta emotiva si trasformava nel doveroso lavoro della conservazione, custodia indispensabile per tramandare ad altri, un giorno, la dottrina.
Così mentre mio padre coltivava il suo Dio incorporeo, io costruivo il mio Golem.
Mi assuefacevo, insomma, alla fede in un dio ateo, che faceva del lavoro e dell’applicazione il senso della sua liturgia.
Il Partito non è poi imploso, ma si è assestato appena sopra la soglia di sopravvivenza, come quegli organismi che riescono a sopravvivere anni ed anni sommersi da chilometri di ghiaccio. Per di più, in barba alle leggi sociali che prevedono che ogni comunità maggiormente si compatti alla diminuzione dei suoi effettivi, noi viviamo invece universi separati e perfino i nostri figli ci guardano con occhi particolari. Ma detto questo, sarebbe sicuramente egocentrismo pernicioso non serbare memoria di tutti loro in queste note, loro che sono e saranno comunque elementi essenziali per affrontare il mondo senza la pena della solitudine. Perché poi, in definitiva, rimane la necessità di tutti noi di sopravvivere a questo mondo disumano.
Concludendo: in quel momento particolare della vita sono riuscito a trovare nell’organizzazione uno scoglio in pieno Oceano e lì mi sono aggrappato. Forse lasciandomi andare nella corrente sarei annegato o forse sarei stato naufrago sulla classica isola deserta; certo la mia umanità avrebbe corso seri rischi di sopravvivenza. Là ero e là sono rimasto, anche se lo scoglio, oggi, non sembra più così salvifico come un tempo.
Tanto che ho ancora questo fremito alla bocca della coscienza, anche se riesco a mantenerlo sotto controllo con una certa facilità. Il medico, visitandomi, mi ha tranquillizzato, assicurandomi che quest’ansia dipende soltanto dalla mia malattia, per la quale non si è ancora trovata la giusta cura.
Allora Evviva, Evviva, sono un malato molto sano, tenacemente aggrappato ad uno scoglio e l’umanità è appena a ventimila leghe: poteva andare molto, ma molto peggio!
Pina
E’ evidente che all’imprinting sentimentale siano poi seguiti altri amori e altre illusioni.
Storie che hanno segnato il corso della mia vita o che, viceversa, lievemente sono scivolate via.
L’ultima disegna la mia vita d’oggidì, il mio vivere quotidiano, il punto d’arrivo della mia storia sentimentale.
Credo, infatti, che non potrò più varcare queste Colonne d’Ercole del Sentimento Conosciuto, questo confine che la realtà della vita impone e che il cuore ha scelto.
Parlare di quel luglio ’81, significa, in realtà, parlare dell’anima e della possibilità che questa, a volte, possa esplodere e lacerarsi, incendiarsi, trasformarsi e divenire feconda come un bosco carbonizzato. Quando il raziocinio ed il sentimento si danno le spalle, allora l’anima viene percorsa da miliardi di Volt fantasma e va in tilt. Io non sapevo neppure di avere un’anima, figurarsi se con la mia malattia potevo preoccuparmi anche di queste eventuali implicazioni!
Quell’estate avevo deciso di spingermi sino alle terre di Pitagora. Ma siccome l’avventura è bella, ma anche la comodità vuole la sua parte, pensavo di limitarmi alla costa tirrenica, dove già allora, si era sicuri di trovare comfort e ricca vita notturna.
Niente da fare.
La mia compagnia decise, al contrario, di volgere lo sguardo allo Ionio, dove meravigliose spiagge selvagge promettevano vacanze incontaminate, seppure con l’handicap di servizi prossimi allo zero.
La scelta cadde su Le Castella, affascinante fortezza aragonese circondata dal mare.
Ora se uno fosse andato a pensare che, caso nel caso, là avrebbe incontrato l’amore, si sarebbe fatta una grassa risata, giurando sull’impossibilità che queste cose possano avvenire.
Sempre che uno lo avesse pensato.
Ma io non lo feci.
Cosicché quella vacanza poté svelarmi che sino allora, in realtà, io non avevo mai conosciuto quel sentimento che poi ti lega per la vita, che ti unisce anche quando questa s’imbizzarrisce e vorrebbe scaraventarti a terra, cavaliere oramai non più sopportato.
Resta il fatto che da quell’incontro non ho mai più riprovato quelle sensazioni così forti e sarebbe dunque sciocco oggi privarsene, anche se la vita, per tutti, non è sempre rose e fiori.
Una premessa alla storia è d’obbligo: il colpo di fulmine è l’esatto contrario del sentimento ragionato. Questa banalità dovrebbero saperla tutti, ma pochi l’hanno sperimentata.
Il fatto è che quando ti innamori all’improvviso, quando hai il tuo love at first sight, in realtà la tua mente si disconnette e soltanto le reazioni chimiche automatiche che il tuo cervello dispone l’una dietro l’altra riescono a guidarti.
Come? Esclusivamente in base all’odore che emana la sua pelle, al colore dei suoi occhi o dei suoi capelli, al suono della sua voce, all’espressione di quella creatura meravigliosa che ti ritrovi dinanzi e che, assurdamente e misteriosamente, in una frazione di secondo, ha azzerato la tua memoria, facendo esplodere senza controllo tutte quelle emozioni che ti eri sforzato di mantenere serrate al tuo interno.
Dall’esterno gli altri vedono dinanzi a loro soltanto un involucro umano con la faccia stranita, che atteggia bizzarramente occhi e bocca e che gesticola senza ragione apparente.
Quello, più o meno, ero io dopo l’incontro con Pina.
L’undici luglio tornavamo sconvolti dal mare dopo quattro ore di sole canicolare.
Bocca e gola somigliano a carta vetrata. Lo stomaco brontola infelice, perché tra i succhi gastrici galleggiano tristemente soltanto pochi rimasugli di frutta di stagione, certo molto politically correct, ma dal volume irrilevante anche prima della masticazione.
Il corpo è in ebollizione, avendo dovuto patire la mancanza di una qualsiasi zona d’ombra su di una spiaggia chilometrica.
L’unica cosa che affiora alla mente è l’immagine di una meravigliosa doccia fresca.
Le nostre sono le uniche due tende del campeggio, nonostante il periodo già abbondantemente estivo. Al Camping degli Ulivi tutto invece era ancora provvisorio, tutto in completamento, in attesa dell’agosto e di una ipotetica stagione che sarebbe durata al massimo un mese. I simpatici padroni ci avevano delegato non soltanto l’uso della cucina, ma anche quello di guardiani, visto che il giorno prima ci avevano messo in mano le chiavi del cancello e se n’erano andati. E tornando rinfrescato e gocciolante, li vedo giustappunto ripresentarsi in compagnia di due ragazze.
Mentre li vedo venire verso di me penso che ho fame e che sarà il caso di andare a preparare degli spaghetti. Incrocio il gruppo e mi presentano: in quel preciso istante un altro nodo della vita si stringe.
Il cielo rimane azzurro, gli olivi verdi, il muro della cucina bianco, la mia macchina rossa, ma io… io i colori, non li vedo più.
Ridicolo, penserete voi.
Si, ridicolo per voi che non stavate cadendo dentro quegli occhi meravigliosi.
Io, invece, annaspavo come Alice che precipita nella tana del Coniglio Bianco e mi chiedevo dove stava scappando la mia vita, dove fuggiva il mio raziocinio, che, dandosi alla fuga giù, sempre più giù, faceva si che io smarrissi il senso del tempo e della realtà.
Credo che qualcuno mi abbia dato di gomito, perché all’improvviso ho pensato che dovevo invitarla a pranzo, trattenerla lì ancora un po’ di tempo.
Diciamo, per usare un eufemismo, che in quegli anni ho sempre avuto molta comunicazione con le donne, ma quella volta capii che la situazione era molto, ma molto più complicata. I miei occhi non si staccavano da lei, che, sarà stata la curiosità o la novità, rispondeva al mio corteggiamento lampo.
Ora in tutto questo deve entrarci il destino, anche se a me, francamente, questa del destino era sempre sembrata una bufala bestiale, creata ad uso e consumo di coloro che devono vivere continuamente in rimessa.
Più probabilmente il destino è una condizione di comodo che ci creiamo a posteriori per dare un significato alla nostra afflizione o alla nostra felicità, ovvero per giustificare i nostri atti, che non sempre sono rispettosi delle altrui esigenze. Ed a ripensarci oggi, effettivamente, mi accorgo di aver vissuto quei giorni, quei fotogrammi di vita, in maniera totalmente egoista, pensando soltanto ed esclusivamente a quello che sembrava il mio bene.
Gli altri erano scomparsi o al massimo fungevano da supporto al mio agire. E sicuramente avrò fatto male a più di uno.
Ma sta di fatto che io ero lì a dividere la pasta con lei, a parlare con lei, a bere con lei, a cercare di capire chi era lei, a chiedermi se ancora avrei potuto vivere senza di lei.
E più ci pensavo e più concludevo che no, senza di lei no.
Ed allora forza, muoviamoci, cerchiamo di conquistarla questa benedetta donna dagli occhi verdi.
Cosicché il giorno di poi, al mare, si tornano ad utilizzare le vecchie tattiche della tea-room, che prevedono nel nostro caso una mitica lettura collettiva della “Collina dei conigli”, con esibizione di tutte le penne a disposizione, comprese quelle prese in prestito dal pavone dell’appartamento accanto. Il tutto accompagnato dal classico comportamento disinibito stile sessantottino, ovvero parole in libertà, quintali di idealità nebulizzati e solidarietà femminista.
In definitiva un gran polverone di poca sostanza, ma di grande effetto.
Risultato immediato basso, ma splendide prospettive per il futuro.
Sennonché il terzo giorno era previsto, tragicamente, il rientro in patria.
E l’annodato gomitolo della vita s’ingarbugliò ancor più. Io decisi, temerariamente ed incoscientemente, di diventare un altro. Lei decise, imprudentemente e audacemente, di provare a divenire un’altra.
Da allora siamo una coppia, ci amiamo e ci graffiamo come a tanti accade, ma passiamo comunque insieme attraverso questi tempi difficili. I nostri figli ci vogliono bene, anche se, a volte, certo non ci capiscono. Ma questo a chi non succede?
Certo dicono che la vita ci plasma e ci rende diversi, ma la mia immaturità sentimentale me la fa sentire vicina come allora, anche se lei crede che questo non sia possibile.
Di lei, credo, non potrei fare a meno, come di quel sogno di libertà che mi porto dietro da sempre. E so che il suo, seppure apparentemente diverso dal mio, è vero amore, come tutta la sua storia accanto a me sta a dimostrare.
Gianni e Gianna
I miei primi amici, Gianni e Gianna, sono praticamente nati con me, insieme abbiamo frequentato gli stessi luoghi, contemporaneamente abbiamo creato i primi giochi.
Quando questa situazione capita, ed è ben rara, annulla poi qualunque Oceano Temporale la vita tenti di frapporre.
Avevamo casa mia come scenario, gli accordi segreti e le parole sussurrate come copione, noi tre bimbi trasformati in attori inconsapevoli della vita.
Un legame unico, osmotico, una fusione del sentire che non sarà più cancellata.
E se Gianni è stato il mio alter ego in più di un’occasione, quelle sentimentali comprese, è pur vero che la nostra amicizia non ha mai abbandonato il terreno del bon ton, io rispettoso dei suoi spazi per imposizione culturale, lui dei miei per disposizione naturale.
Credo che una sorta d’ammirazione sia valsa nei due sensi, ognuno di noi conscio dei propri limiti e desideroso di imitare le conquiste psicologiche dell’altro.
Almeno così penso e spero, visto che per me senz’altro lo è stato.
Gianni è stato molto di quello che avrei desiderato essere, ma credo che certe scelte, se scelte sono, non possano prescindere dalla formazione e dalle abitudini culturali.
Ed io ho sempre viaggiato molto al di sotto dei suoi livelli, anche se a volte credo di essermela cavata meglio. Con lui, come ho già detto, il rapporto è viscerale prima che intellettuale. Crescere insieme poi vuol dire anche somigliarsi un po’, specialmente per quella parte di mondo che attiene all’etica.
Le scelte di base permangono nel tempo, anche se le vicende di ognuno di noi hanno epiloghi diversi.
Con sua sorella è stata tutta un’altra storia.
Gianna è stata il prototipo del mio ridimensionamento sentimentale.
Lei è stata quella che mi ha involontariamente costretto ad imparare le tecniche che domano dolcemente l’amore per trasformarlo in vera amicizia. Innamorarsi bambini è pur sempre un guaio, specialmente quando il primo amore rimane a galleggiare poco lontano da noi nel lago della nostra coscienza. Per vivere queste storie dovremmo avere una nostra privata Delorian e la possibilità di lanciarla attraverso tempo e spazio. Ma visto che così non è, la nostra disciplina interiore c’impone di soprassedere, possibilmente senza covare tormenti cinquantennali. E’ che, a volte, nonostante il cuscino di piume premuto con forza, quel sentimento si rifiuta di essere soffocato ed urla e scalcia e si ribella.
E noi rimaniamo degli assassini mancati.
In effetti l’esperienza conferma che quando si è sufficientemente piccoli da non poter essere sedotti dal turbine dei sensi, si è indubbiamente al sicuro da tutte quelle pene, che poi, invece, la pubertà, l’adolescenza e l’età adulta ci proporranno, quasi appartenessero ad un ipotetico piano di studi per il nostro obbligatorio corso di Scienza della Maturità. Confesso che, a tal proposito, a suo tempo ho avuto modo di seguire vari corsi di recupero e non poche lezioni private, ma, nonostante ciò, la mia laurea devo ancora conquistarmela.
Certo è che da quando lei, la ragazzina della bici rossa, iniziò a farmi compitare, non ho più avuto un tempo della vita nel quale mi sia potuto sottrarre a quegli esami.
Penso che ognuno di noi, in realtà, abbia avuto queste stesse mie prime sensazioni.
Tanti batticuori che, in seguito, la vita ha apparentemente sepolto sotto altre ansie ed altri ricordi. Chiunque li avrà provati, avrà nondimeno notato che quelle particolari emozioni, più di tutte, riescono a sopravvivere nell’attesa della nostra maturità di cinquantenni.
Allora, e soltanto allora, il programma genetico che le governa sembra ridestarle, guidandole sino alla superficie del nostro sentire. Cosicché una mattina, una qualsiasi, magari andando al lavoro, mentre stiamo rimuginando su quanto potevamo avere dalla vita, quei sentimenti riaffiorano inaspettatamente alla mente e ci rendiamo conto, con lucidità, che siamo al famoso giro di boa, alla resa dei conti, allo zenit del nostro vivere algebrico.
E spesso concludiamo il nostro ragionamento ottenendo un segno negativo.
Ma la vita, che certo non bada alle nostre gioie o ai nostri tormenti, a volte ci porta in dote gli strumenti per resistere. Alcuni di noi, favoriti dalla sorte, si accorgono di possedere particolari qualità: la capacità di continuare a sognare anche con i piedi ben piantati per terra, la caparbietà di perseguire un fine per l’intera vita anche se questo pare impossibile da realizzare, la pazienza ed il controllo necessari per non soccombere a quest’impresa.
Io, fortunatamente, sono uno di loro.
Fabrizio
Fabrizio, mio fratello adottivo, l’ho invece incontrato a scuola, nel mio anno di costrizione.
Lui era tutto quello che sino allora non avevo conosciuto: veniva da un paese del circondario da me inesplorato, parlava uno slang diverso, tifava per una squadra diversa da quella di tutti noi fiorentini.
Apparentemente impacciato, a prima vista confusionario, risultava poi essere tipo tosto, con una mente più ordinata della mia, un giovane uomo aperto al nuovo, in crescita, mentre io già credevo scioccamente di aver raggiunto il massimo.
Calmo, metodico, pensava prima di parlare. Tutte qualità nuove per me, che mi ero sempre maldestramente buttato nella difesa di tutto, se quel tutto era attaccato.
Abbiamo iniziato a frequentarci ed a scoprire che ognuno di noi niente conosceva del mondo dell’altro. Abitavamo a non più di dieci chilometri, ma era come se fossimo sulle sponde opposte dell’Oceano.
Ho conosciuto i suoi nonni (ed i miei erano già deceduti) e suo padre e sua madre.
Ho incontrato, con lui, una “nuova civiltà”, quella della campagna, delle Case del Popolo e degli orti e poi quella dei quartieri dormitorio, quella dei militanti del vecchio PCI.
Pensavamo di contrapporci al loro tradimento, ma in realtà contestavamo soltanto età anagrafica ed esperienza di vita, per molti di loro figlia del compromesso e della viltà intellettuale.
Al contrario, quei suoi genitori berlingueriani, quei nonni odorosi di casa colonica, mi emozionavano positivamente. Mi gratificavano i loro apprezzamenti, o pur anche la corretta contestazione delle mie tesi.
Mi piacevano le parole di quei progenitori di un altro tempo e di un altro luogo, antenati che si amavano prima di sopportarsi, persone care come elfi e criceti. Ricordo intensamente il loro parlottare, il loro mangiare separati, i consigli dati come ordini.
I loro figli, genitori di Fabrizio, erano molto diversi dai miei.
Una madre molto aperta, generosa e diretta ed un padre apparentemente duro, ma dal cuore immenso, un uomo costretto in un ruolo esteriormente autoritario, caratteristica della quale
-sono certo- volentieri si sarebbe liberato, se costume ed abitudine, convenzioni e carattere non ve lo avessero inchiodato. Un compagno che non ci capiva e le cui idee non condividevamo. Ci scontravamo per immaturità, perché ancora non comprendevamo la profonda, indistruttibile, duratura onestà che lo muoveva e lo sosteneva.
Quelle caratteristiche le apprezziamo solamente oggi, noi finalmente cinquantenni, dinanzi allo sconquasso di una società senza regole e senza remore, senza alcun attaccamento alla dignità personale.
Fabrizio mi ha accompagnato, nel bene e nel male, in questi ultimi trentacinque anni, condividendo con me esperienze e speranze, angosce e delusioni ed ancor oggi capisce con esattezza i miei limiti e non li oltrepassa.
Insieme siamo stati sui prati di Boboli spartendo paure ed emozioni per i primi approcci con l’agognato altro sesso; insieme abbiamo affrontato i suoi ed i miei problemi quando quei contatti divenivano storie che speravamo serie; insieme abbiamo conosciuto la politica, quella dei lacrimogeni e quella delle interminabili riunioni; insieme abbiamo superato quelle incertezze che i tempi ci ponevano dinanzi, riunendoci quando tutti erano risucchiati dalla diaspora dell’ideologia.
L’uno all’altro ci siamo appoggiati e ci appoggiamo quando la realtà ci sospinge in un angolo, quando vorremmo che gli altri capissero cose per noi banali, ma che, evidentemente, risultano incomprensibili all’esterno.
Insieme vorremmo passare il domani, anche se oggi il sentirsi ed il confrontarsi è quasi diventato un lavoro, presi come siamo dall’inutilità della vita.
Tiziana
Di Tiziana ricordo invece che da sempre ha preferito altri, o forse che da altri è stata maggiormente attratta, pur sentendosi intimamente legata a me.
Francamente ancora non posso darle torto, preso com’ero allora dalle mie incertezze, dalla mia poca sapienza e dalla scarsa disponibilità a conferire certezze.
In realtà anch’io, come lei, allora cercavo “un centro di gravità permanente” e non sapevo (e forse neppure lei) quanto sarebbe stato poi greve quel peso.
La prima immagine è il suo pancione di gestante, faticosamente imprigionato in una tenda durante il più squallido campeggio libero che si ricordi a memoria d’uomo.
Là, sposa forse ancora felice, ho imparato ad ammirarla ed a condividere i suoi pensieri.
Quando le cose poi cominciarono a non andare più nella sua vita sentimentale io avrei potuto cercare di conoscerla meglio e meglio farmi conoscere, tentare insomma di avvicinarla sentimentalmente, perché condividevo certe sue ansie, certe sue irrequietezze.
Ma la distanza che la vita aveva creato fra noi era ancora troppa ed eccessive erano ancora le sue speranze e le sue aspettative. Tutte attese da realizzare con qualcuno che certo poteva offrire più di me, mai come allora esitante del mio domani.
Ed in quel momento il mio sentimento cominciò obbligatoriamente ed inevitabilmente a cambiare. Avevo capito che seppure lei viveva la sua storia sentimentale con un altro, poteva diventare però il mio alter ego femminile, lo specchio attraverso cui poter continuare ad osservare la giovinezza dei miei sentimenti.
Insomma, certo l’uva forse non era così acerba, ma senz’altro era ad un’altezza troppo elevata per me.
Il tempo trascorso da allora ha ancor più affinato la nostra comune sensibilità, forse proprio in virtù della nostra obbligata lontananza, che s’interrompe magicamente ad una visita o ad una telefonata, occasioni che abbattono ogni barriera e che ci fanno sentire vicini come sempre. Forse tutto questo è soltanto l’aver sviluppato entrambi una tecnica psicologica di sopravvivenza o forse è soltanto aver capito che la notte è ancora lunga e che nell’attesa che passi, ogni cerino acceso può essere utile, specialmente se riusciamo a convincerci che ha la potenza di una fotoelettrica.
Gli altri
E poi ci sono stati gli amici e le frequentazioni della scuola; i compagni, ad esempio, della foto di quinta elementare, calzettoni e facce rubizze, cognomi che riconosci quaranta anni dopo in una targa d’ottone od in un’insegna di negozio. Li rivedi, ma sono soltanto deja-vu dell’era primordiale, fantasmi che vivono altre vite. Non gli appartieni e non ti appartengono più.
Crescendo stabilisci invece rapporti più raffinati, più approfonditi, condividi le scelte e selezioni: crei rapporti per affinità e non per tributo alle convenienze. Il tempo delle vacanze, ad esempio, viene gestito in una nuova comunanza d’interessi, così da sentirsi più adulti tra adulti. Ed il trascorrere del tempo fa si che gli indisciplinati, egoisti bimbi di un tempo, si trasformino così in avventurieri seri e ligi alle regole della fantasia.
Le prime esperienze, quelle che ricorderemo per sempre, quelle consumate su una spiaggia o ai piedi di un castello, assurgono così a senso della vita, si elevano a rituali magici di noi amici, noi compagni d’arme e d’avventura, noi soli gitanti fuori stagione, in caccia perenne di trofei sentimentali sulle spiagge dell’Isola Che Non C’è.
E poi verranno una nuova maturità e nuove passioni, nuovi e sconosciuti amici, verso i quali, a differenza del passato, si dovrà sforzarsi di avere limitate attese. Ma ciò nonostante la vita comunque tornerà a tentarci e la passione ci manderà in crisi d’astinenza, perché quelli come me devono sempre sperare oltre il lecito e il logico.
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