Autoanalisi

Ricordare per poter comunicare.Quello che abbiamo vissuto senza pentimenti e capriole, nè in politica, nè in privato. Molto amore, molta passione ed una spruzzata di fortuna, per noi che avevamo vent'anni in quegli anni.

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martedì 8 febbraio 2005

Vigna Vecchia 15

Oggi sono tornato. Per entrare ho usato le stesse chiavi di allora, quelle che avevano ratificato la mia prima maturità.
Forse domani cambieranno la serratura e queste mie visite diverranno impossibili.
Oggi, ancora, entro ed avverto immediatamente il nuovo silenzio.
Lo registro con la mente, prima ancora che l’udito me lo confermi.
Siedo sulla panchina del giardino e fisso le occhiaie vuote di tutti quegli appartamenti che una volta nascondevano vite e sentimenti conosciuti.
Fantasmi, oggi solamente fantasmi della memoria.
Tra le piante di questo giardino io sono cambiato, forse cresciuto.
Attraverso questo giardino, com’era e com’è, sono passate tutte le donne della mia vita: le zie e le vicine, le nonne e le mamme, le fidanzate e le mogli, le amanti e le amiche, le figlie e le fidanzate dei figli.
I caratteri, le parole, le abitudini, i volti di tutte quelle donne sono così ora disseminati qua e là nella memoria ed è bello ricordarle, facendole affacciare mentalmente da quelle finestre, facendole camminare sotto quei porticati, spiandole nei loro gesti quotidiani od osservando segretamente i loro imbarazzi o la complicità che traspare dai loro occhi.


L’Emilia.
Mia nonna veniva da S.Frediano. Dal quartiere delle baruffe e delle bestemmie, degli amori impossibili e del fuoco rivoluzionario e si portava dietro la convinzione di essere nata nell’ombelico del mondo, di essere stata generata al solo scopo di elevarsi socialmente, prendendosi tutte le rivincite che le erano dovute.
Nata impagliatrice di fiaschi, assurse al ruolo di cappellaia e questo fu tutto.
Fece un buon matrimonio, ma guerra e spagnola le furono contrarie. Generò due figli, divisi da dieci anni e da un sentimento materno poco equanime. Mio padre era il minore e per anni l’ho sentito, con garbo, rifiutare l’etichetta di figliolo di serie B.
All’indomani del matrimonio venne ad abitare in centro, lì generò e decenni dopo vi morì.
Ad essere giusti, in realtà, si spense in quel di Montedomini, casa di riposo tristemente famosa a Firenze alla fine degli anni sessanta.
Delle poche visite che le feci, nel breve periodo che vi trovò ricovero, ho ricordi francamente angosciosi, con lei oramai completamente cieca e parzialmente immobilizzata da un ictus, un povero essere umano, che nel suo anticipato buio fisico e morale, mi cercava con le mani protese, forse per sentire in me l’energia della gioventù, il calore di un affetto che lei riteneva pulito e sincero.
Io ero un ragazzo e per di più poco abituato a soffrire: fuggivo da quelle visite e m’ingegnavo a spegnere nel più breve tempo possibile i miei sensi di colpa. Poi sono stato l’unico che ha continuato a frequentare quella parte di cimitero dove si disfaceva la sua tomba, anche quando le fosse erano oramai divenute semplici tumuli di terra, riconoscibili soltanto per una targa o una croce affogate nel muschio.
Niente falsa spiritualità, soltanto un contatto con la terra bagnata o arsa, aspirando l’odore della borracina o delle coccole di cipresso.
Un ricomporre immagini, la mente stimolata dai sensi.
L’ho fatto poi più volte in camposanti e giardini, in case amiche o sconosciute.
Per me la madre di mio padre ha sempre rappresentato il bel tempo che fu.
Bello forse però soltanto perché lontano, affascinante unicamente perché vissuto con la mente sgombra di bimbo, attraente unicamente perché collegato al sogno di poter viaggiare nel passato, alla conquista di quello che non potemmo cogliere.
Lei si dedicava alla casa, badava a me, organizzava la vita di tutti noi, cercando di rimanerne però al di fuori. Grazie a lei mio padre e mia madre conobbero i film neorealisti ed i musei della loro città, mentre io, nella calura estiva, vidi e vissi le scogliere di Antignano, arse dal sole ed aulenti di tamerici.
La nostra era esistenza comune a migliaia di famiglie operaie.
I ritmi quelli del quartiere, scanditi da abitudini tramandateci.
L’Emilia era già quasi cieca, quando l’Arno sfondò il portone del giardino e si arrampicò sino all’ultima rampa delle nostre scale, battendo il record di salto in alto con ben 460 centimetri.
La sua camera, dovendo far posto agli sfollati, divenne per un periodo anche la mia. L’accudivo per quel che potevo, ma poi cercavo di far entrare di soppiatto le ragazze fidando nel suo handicap.
Ci siamo voluti bene e ci siamo parlati, forse molto di più di quello che fanno oggi nipoti e nonni.
Mi raccontava delle lotte per le otto ore, della fatica quotidiana e della solidarietà tra lavoratori, di cosa significava vivere del lavoro a giornata, con la speranza obbligatoriamente alimentata dal niente del quotidiano e con la rabbia per una giustizia che appariva fola per ragazzi.
Mi diceva degli amori e delle disgrazie, quelle degli altri e quelle sue, come quella sera che durante il lavoro, protrattosi troppo a lungo, un fiasco le si ruppe in mano, lasciandole il tendine definitivamente danneggiato e allontanandola così dal lavoro per settimane, settimane in cui si dovette stringere ancor più la cinghia. Ma mi parlava anche del passeggio della domenica in piazza della Signoria e sotto gli Uffizi, della cioccolata calda da Revoire, un lusso che aspettava l’intera settimana.
E poi le passeggiate alle Cascine, che a Maggio propiziarono la canzone rimasta nei nostri ricordi.
Con mia madre era sempre un po’ altezzosa, quasi avendo paura di dover abdicare al suo potere domestico. E mia madre credo che sotto sotto fosse felice di questo ruolo di secondo piano, potendo così dedicarsi al lavoro, a me e soprattutto alla cura della sua persona, alla quale, giustamente, ha sempre tenuto.
Della nonna mi restano i modi di dire, il senso ed il gusto della fiorentinità e la scoperta della Viola, di cui suo figlio maggiore era tifoso sfegatato.


Le ciane.
L’Emilia aveva circa l’età delle altre inquiline del nostro originale condominio.
Tra loro c’era chi amava i gatti e chi si perdeva nelle note di un pezzo classico che arrivavano flebili dalle cuffie di una radio a galena. E chi continuava la pratica dell’orto di guerra, usando a mo’ di vasi le pentole di porcellana o d’alluminio oramai non più utilizzabili. Una babele di forme e di colori che creava un affascinante, selvatico caos.
Ma c’era anche chi filtrava la mala vita quotidiana attraverso la consolazione della lettura della Bibbia, che da noi, uscio e bottega con la chiesa protestante, era pratica auspicabile e diffusa.
Nomi di un altro tempo: la signorina Silvia, la signorina Palmira, la signora Zaira, la zia Armida, tutte attempate e pie donne oltre i sessanta anni.
Il mio giocare a pallone era inframmezzato dai loro richiami e dalle loro proteste, dai loro inviti e dalle loro minacce.
Quando cominciai quotidianamente a scappare in bicicletta verso le Cascine tirarono tutte un sospiro di sollievo.

Mia Zia
Di mia zia che viveva al piano terreno in un appartamento ricavato dalla chiusura delle arcate poste a sinistra del chiostro, ricordo il carattere autoritario e chiuso, l’educazione ferrea impartita a mio cugino, l’apparente impossibilità a sciogliersi in un sorriso o in un abbraccio. Ma ricordo anche il profumo dei meravigliosi dolci sfornati dalla sua cucina economica, che spesso rallegravano nuvolosi pomeriggi o interminabili giornate estive e le volte che mi concedeva di accompagnarla lungo le rive dell’Africo, dove, inebriato dal profumo della fabbrica dei biscotti, rimanevo incantato a guardare i grandi cesti di vimini stracolmi di frolle. La zia non ha mai avuto un buon rapporto con la nonna Emilia; forse gravava su quest’antipatia la gelosia di una moglie verso una suocera troppo amata dal figlio.
Comunque sia, la fortuna di una nuova casa, dopo il dolore della perdita inflitta dall’alluvione, la rese a tutti noi più lontana e gli affetti furono smorzati dalla distanza topografica.
Anni di coinvolgente abitare comune scolorirono rapidamente e la morte prematura di mio zio certo non migliorò le cose.
Quindici anni di rapporti svanirono così in pochi mesi.
Ancor oggi ho un consanguineo che non sento e non conosco, una persona che ha condiviso con me anni di crescita, di segreti e d’affetti: un cugino scomparso in vita, un desaparecido sentimentale.


Gemma
Ora qui seduto su questa panchina, mentre il sole è catturato dalla torre del Bargello, continuo a rivivere la vita di quel tempo e ricordo così la ritrosia di mia madre, la sua difficoltà a stare “a chiacchiera” con la piccola comunità di Via della Vigna.
In lei prevaleva il carattere schivo, la ritrosia ad occuparsi delle piccole cose d’ogni dì, trionfava, invece, la sua difficoltà a stabilire saldi e franchi rapporti umani.
Di questo s’intristiva mio padre, che, invece, socializzava con tutti.
Ma, ciò nonostante, il loro è stato un rapporto grandemente rispettoso delle singole personalità, un elemento, questo, indispensabile per il mantenimento dell’amore in una coppia e, credo, componente essenziale per la sua crescita e la sua stabilizzazione.
Ricordo una fotografia, nella sua semplicità molto bella, di loro ancora fidanzati, colti mentre passeggiano sui Lungarni: come molti loro coetanei sembrano essere usciti da una cartolina commemorativa del giorno della liberazione di Parigi. L’una sottobraccio all’altro, camminano spediti, magri e belli nella loro gioia per una vita che appariva, finalmente, dal futuro sereno. Mio padre con gli occhialini da intellettuale ereditati dal campo di prigionia in Inghilterra, i baffetti alla moda ed un doppiopetto anteguerra sin troppo ampio; lei occhi ridenti, un velo di rossetto sulle labbra, il sorriso aperto e coinvolgente, le gambe snelle e nervose.
Altre immagini seguono nella memoria, quelle fotografiche del loro matrimonio e quelle delle feste al Casinò Borghese, dove mia madre in uno splendido abito preso a noleggio, sembra appartenere alla corte di Versailles, ma nessuna, nessuna come quell’immagine scattata per caso sotto un nuovo sole “liberato”, parla così palesemente di speranze e di voglia di fare, del desiderio di dimenticare e ricominciare da capo una vita diversa.
E, naturalmente, anche della voglia di generare nuova vita a cui cercare di dare tanto, tutto quello, come ci hanno ripetuto per anni i genitori di quella generazione, che loro non avevano potuto avere.
Nessuno di loro, nessuno della loro generazione, si sarebbe mai aspettato poi lo sconvolgimento della fine degli anni sessanta: la contrapposizione con i figli, le incomprensioni, la domanda assillante che si sarebbero posta per anni: dov’è che abbiamo sbagliato? Si scoprirà poi che non loro, ma noi avevamo smisuratamente errato, preda dell’insaziabile voglia di felicità a basso costo.
Noi che abbiamo straparlato di nuovi ideali, di nuove e più perfette giustizie, non soltanto siamo divenuti, com’era nella logica delle cose, i migliori difensori dell’esistente, ma non siamo neppure riusciti a trasmettere le basi minime dell’etica ai nostri figli, a tramandare un qualsiasi motivo per proseguire sulla strada che sin troppo facilmente noi avevamo abbandonata. Il risultato è stato generare ed allevare nuovi uomini e nuove donne senza punti di riferimento: non le nostre sofferenze da cancellare, non i nostri ideali da perseguire, non la voglia di conquistare qualcosa che non sia semplicemente in vendita, non le aspettative per un mondo nuovo, che, anzi, mostra già i bagliori del suo crepuscolo.
Probabilmente non potevamo fare di meglio, ma certo è che nonostante le loro idee “antiquate”, i loro divieti apparentemente insensati, i loro traguardi da raggiungere, la felicità per le loro seicento nuove, per le loro tavole di formica, per l’orgoglio smisurato di avere dei figli che si diplomavano o si laureavano, i nostri genitori hanno fatto ben migliore figura di noi, figli dell’incomunicabilità delle pance piene.
Mia madre era nata da stirpe sannita e di quegli antichi aveva mantenuto sempre il carattere e la forza interiore. La sua è stata storia di lavoro e d’accettazione, ma anche d’emancipazione ed indipendenza.
Se gli è mancato qualcosa è stata unicamente l’impotenza a combattere la battaglia dei sentimenti, la forza di misurarsi nella lotta quotidiana per capire a fondo coloro che gli erano vicini negli affetti e che, a volte, chiedevano a lei aiuto ed indirizzo senza trovarli.
Mia madre avrebbe avuto bisogno di una sorta di manuale Cencelli dell’amore, che le dicesse, per filo e per segno, cosa fare e cosa dire, quanto chiedere e quanto concedere.
Così è stato verso mio padre, così è stato verso di me.
Quando nasce sui monti dell’Appennino meridionale, è già un po’ diversa dalle sue coetanee: i genitori sono medi possidenti agrari e lei va a scuola evitando il lavoro dei campi.
Può frequentare sino alla seconda classe delle medie superiori, nella speranza di approdare all’insegnamento, ma trova posto al Monopolio Tabacchi ed il primo stipendio che lo Stato le dà è cosa troppo importante per essere gettata al vento. Specialmente per una famiglia dove il padre è già grande invalido di guerra e dove lei è la maggiore di quattro figli.
Lavorare a diciassette anni la rende consapevole della limitatezza della vita di paese, della noia di una promessa di matrimonio confezionata su misura, dell’asfissia provocata da un ambiente che oramai aveva perso anche il fascino del decaduto regime, sprofondando tutti nella lotta per la sopravvivenza.
Naufragati i fasti dell’Impero, nuove paure e dolori erano giunti con l’arrivo delle truppe di colore mandate allo sbaraglio dall’esercito alleato.
Il passaggio del fronte distrusse in poco tempo sia le vecchie certezze sia le nuove speranze. L’inflazione, nel frattempo, aveva mangiato rendite e risparmi, suo padre era morto ed i fratelli erano stati mandati in collegio a Firenze.
Gli studi erano oramai stati interrotti e sembrava doveroso seguire i fratelli più piccoli nella nuova città. Il destino non permise il suo trasferimento al Monopolio e lei fu retrocessa al ruolo di atta a casa.
Di lì ad un anno iniziarono i ritorni: migliaia di ex prigionieri tornavano ad abitudini quasi dimenticate dopo più di un lustro di lontananza.
E fu così che un reduce fra i tanti, incrociò la sua vita con una delle tanti sfollate.
Per mio padre fu un colpo di fulmine, per mia madre la scoperta di una persona diversa, l’opportunità di vivere una vita dignitosa accanto ad un uomo che la considerasse e l’apprezzasse per le sue capacità.
L’amore a volte si costruisce giorno per giorno e questo fu il suo caso.
La loro speranza e la loro buona volontà mi catapultarono in questa vita ad allungare il brodo di un DNA sempre più raro nella nostra casata.
Di me piccolo e di lei giovane ricordo i viaggi giornalieri al Mare dell’Anconella, ovvero le rive sabbiose di un Arno che ancora allora il poeta poteva definire d’argento senza tema di smentita. Là, come in Versilia, ci accoglievano ombrelloni e sdraio, risa, secchielli e salti dal trampolino, dove i giovani dell’epoca, oggi attempati pensionati, facevano mostra di coraggio e sguaiatezza.
Era una mamma che lavorava e che dunque era presente a tempo.
Ancor di più era impegnato mio padre, che la vedeva spesso soltanto la sera e che con lei scambiava poche parole, vuoi per la stanchezza che pesava su entrambi, vuoi per una certa tensione spesso presente, fatta di piccole insoddisfazioni e di sogni mancati.
In sottofondo la nostra radio che trasmetteva le notizie o le canzoni di Villa o quelle dei nuovi urlatori, cantanti ai quali mio zio prediceva vita breve; due su tutti: tale Mazzini Mina e Celentano Adriano. Su Morandi Gianni già esistevano più aperture; chi superava l’esame a pieni voti erano Zanicchi Iva e Cinguetti Gigliola. Bocciati senz’altro gruppi e gruppetti, dai Beatles (ma ci si può chiamare scarafaggi?) all’Equipe 84 (cosa sono, gli anni dei quattro tutti assieme?).
Con mia madre e mio padre ricordo i sabati d’estate all’Arena Estiva Chiardiluna, ricostruita stagionalmente sul greto dell’Arno, in tempo perché alla fine di settembre potesse essere finalmente rigogliosa la vite americana che mascherava lo steccato esterno.
Prima delle piogge autunnali, come un gioco colossale, tutto era smontato per l’anno successivo.
Il Big Ben dell’Anno Domini 1966 disse stop.
Tempo dopo si dovette salire la Costa S.Giorgio per approdare all’Arena di Forte Bel Vedere: qualcuno doveva aver pensato che lassù si poteva finalmente essere al sicuro!
I gesti ricorrenti erano quelli di farmi fare i biglietti, di andare a scegliere i gelati, di mettermi il golf d’ordinanza: “che siamo sul fiume e c’è umidità e poi ti raffreddi dammi retta che vuoi fare sempre di testa tua che io ho più esperienza e so come vanno queste cose”.
Mia madre e mio padre stavano l’una nelle braccia dell’altro ed io ero finalmente in pace con me stesso ed il mondo.
Poi sono giunti gli anni dell’adolescenza e quelli delle passioni, ed io, come tanti, ho scavato una trincea tra me ed i miei, tanto più con mia madre che non esternava i suoi sentimenti e che, dunque, maggiormente m’inquietava. Era convinta che il mondo, le amicizie, la politica, la scuola inadatta mi stessero rovinando la vita e, conseguentemente, facessero franare anche la sua.
Quel periodo fatto di fughe di casa e d’abiti maleodoranti di lacrimogeni, d’apprensioni per il mio rincasare tardivo, quel periodo colmo d’incomprensioni continue, di freddezze reciproche, l’ho sentito ricordare da lei soltanto pochi anni fa, quando i miei figli avevano la mia età d’allora.
In effetti, non ho mai parlato a lungo con lei, non ho mai trovato argomenti che interessassero a lungo sia me sia lei e soltanto passati i miei cinquanta ed i suoi ottanta, ho capito che potevo anche stare semplicemente ad ascoltare, visto che questo procurandole piacere mi rendeva sereno. E lei, di converso, ha cominciato a capire quanto universo poteva racchiudersi in me e nelle mie idee, seppure a suo giudizio troppo pensate e coltivate nelle malinconie.

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Immaturità sentimentale

“La prognosi per un soggetto maschio affetto da Immaturità Sentimentale è nella maggior parte dei casi infausta. A maggior ragione se la malattia ha recidive durevoli nel tempo, soprattutto in età avanzata. Il maschio soggetto a tale patologia soffrirà costantemente di mancanza di stabilità emotiva; castrazione delle relazioni passionali; mancanza d’autostima riferita alla sfera affettiva; asfissia degli affetti. E, soprattutto, inadattabilità ad integrarsi alla condizione di totale carenza di trasporto sentimentale. Allo stato attuale degli studi non esiste ancora nessuna cura che possa sradicare completamente la malattia.”.

L’amore, secondo lo schema culturale corrente, non si limita alla propria compagna, ma si sviluppa e si approfondisce nel più vasto ambito dell’amicizia. Non scopro niente, anche se molto da dire ci sarebbe sulla complessità di questo sentimento e sulle sue sfaccettature.
E’ sotto gli occhi di tutti quanto sia difficoltoso districarsi dalle difficoltà quotidiane del rapporto di coppia, ma è anche vero che non meno complicato è mantenere la stima e l’affetto per un altro uomo o per un’altra donna. Questo, soprattutto, perché conservare nel tempo un rapporto positivo con un altro essere umano, significa innanzitutto essere riusciti a sconfiggere la sfiducia presente nella nostra società, diffidenza quasi sempre determinata dalle debolezze e dalle insicurezze presenti in ognuno di noi. Ecco perché poi siamo condizionati ad operare verifiche e selezioni, a volte dolorose.
Se poi, per noi che siamo nati negli anni cinquanta, si parla d’amicizia al femminile, non si può trascurare un condizionamento culturale fondamentale, che ci trasciniamo, a differenza dei nostri figli, sin dalla gioventù. Per noi avere un’amica non può essere che il sottoprodotto di un amore passato, al quale, obbligatoriamente, si è dovuta sostituire la comunanza delle idee e del sentire.
Insomma l’amore, in ogni caso, rimane cosa difficile da ipotizzare ed ancor più gravosa da realizzare. In più io ho dovuto superare le insidie create dalla mia malattia. Quella che ha fatto sì che io vivessi i sentimenti sempre sopra le righe, con pochi equilibri, esaltandomi per le conquiste e deprimendomi per le perdite. Ho così cercato per tanti anni di allontanarmi dai miraggi del Vero Amore o dell’Amicizia Perfetta. Questo, almeno, era il punto d’arrivo. Nel frattempo, però, mi sarei semplicemente accontentato di raggiungere un minimo d’equilibrio, quel poco di armonia che mi permettesse di superare le incoerenze del mio mondo privato. Mi sarebbe bastato, in definitiva, trovare una soluzione transitoria che mi rendesse almeno sopportabili le contraddizioni di quella comunità di uomini e donne che quotidianamente frequentavo e che facevano della politica il loro centro di gravità permanente. Compagni che avrebbero voluto essere tra loro anche amici e che spesso non vi riuscivano.
Purtroppo, infatti, essere amici è qualcosa di più, ma anche qualcosa di meno della comune militanza.
L’amicizia dà conto, infatti, soltanto alla lealtà dei rapporti personali e non si deve confrontare necessariamente con il resto del mondo. Cosicché la confidenza, l’affiatamento, la familiarità che partono dalla testa possono fluire tranquillamente attraverso i sensi, trasportando in superficie sentimenti che non credevamo neppure di possedere.
Essere compagni significa, invece, aver stretto un legame che va ben oltre le reciproche simpatie, che traguarda l’umanità e non il singolo uomo e che dunque c’impone, a volte, di castrare i nostri slanci e le nostre passioni private.
Sembrano parole della nostra preistoria, ma era ed è così.
A peggiorare le cose, c’era poi il fatto che l’organizzazione su cui avevo investito mente e cuore, cominciava lentamente ad implodere.
Cosicché molti compagni, vista la difficoltà di un cambiamento della realtà per merito delle Idee e dei Progetti, iniziavano a parametrarla secondo i loro bisogni e le loro esigenze. Insomma, seppure in buona fede, la deformavano a loro uso e consumo. Si rintanavano nelle loro case e nei loro lavori per salvaguardare il loro stesso equilibrio, per dare una soluzione indolore alla loro scissione teorico-pratica.
L’organizzazione così si ritualizzava, i rapporti personali si cristallizzavano, la spinta emotiva si trasformava nel doveroso lavoro della conservazione, custodia indispensabile per tramandare ad altri, un giorno, la dottrina.
Così mentre mio padre coltivava il suo Dio incorporeo, io costruivo il mio Golem.
Mi assuefacevo, insomma, alla fede in un dio ateo, che faceva del lavoro e dell’applicazione il senso della sua liturgia.
Il Partito non è poi imploso, ma si è assestato appena sopra la soglia di sopravvivenza, come quegli organismi che riescono a sopravvivere anni ed anni sommersi da chilometri di ghiaccio. Per di più, in barba alle leggi sociali che prevedono che ogni comunità maggiormente si compatti alla diminuzione dei suoi effettivi, noi viviamo invece universi separati e perfino i nostri figli ci guardano con occhi particolari. Ma detto questo, sarebbe sicuramente egocentrismo pernicioso non serbare memoria di tutti loro in queste note, loro che sono e saranno comunque elementi essenziali per affrontare il mondo senza la pena della solitudine. Perché poi, in definitiva, rimane la necessità di tutti noi di sopravvivere a questo mondo disumano.
Concludendo: in quel momento particolare della vita sono riuscito a trovare nell’organizzazione uno scoglio in pieno Oceano e lì mi sono aggrappato. Forse lasciandomi andare nella corrente sarei annegato o forse sarei stato naufrago sulla classica isola deserta; certo la mia umanità avrebbe corso seri rischi di sopravvivenza. Là ero e là sono rimasto, anche se lo scoglio, oggi, non sembra più così salvifico come un tempo.
Tanto che ho ancora questo fremito alla bocca della coscienza, anche se riesco a mantenerlo sotto controllo con una certa facilità. Il medico, visitandomi, mi ha tranquillizzato, assicurandomi che quest’ansia dipende soltanto dalla mia malattia, per la quale non si è ancora trovata la giusta cura.
Allora Evviva, Evviva, sono un malato molto sano, tenacemente aggrappato ad uno scoglio e l’umanità è appena a ventimila leghe: poteva andare molto, ma molto peggio!


Pina
E’ evidente che all’imprinting sentimentale siano poi seguiti altri amori e altre illusioni.
Storie che hanno segnato il corso della mia vita o che, viceversa, lievemente sono scivolate via.
L’ultima disegna la mia vita d’oggidì, il mio vivere quotidiano, il punto d’arrivo della mia storia sentimentale.
Credo, infatti, che non potrò più varcare queste Colonne d’Ercole del Sentimento Conosciuto, questo confine che la realtà della vita impone e che il cuore ha scelto.
Parlare di quel luglio ’81, significa, in realtà, parlare dell’anima e della possibilità che questa, a volte, possa esplodere e lacerarsi, incendiarsi, trasformarsi e divenire feconda come un bosco carbonizzato. Quando il raziocinio ed il sentimento si danno le spalle, allora l’anima viene percorsa da miliardi di Volt fantasma e va in tilt. Io non sapevo neppure di avere un’anima, figurarsi se con la mia malattia potevo preoccuparmi anche di queste eventuali implicazioni!

Quell’estate avevo deciso di spingermi sino alle terre di Pitagora. Ma siccome l’avventura è bella, ma anche la comodità vuole la sua parte, pensavo di limitarmi alla costa tirrenica, dove già allora, si era sicuri di trovare comfort e ricca vita notturna.
Niente da fare.
La mia compagnia decise, al contrario, di volgere lo sguardo allo Ionio, dove meravigliose spiagge selvagge promettevano vacanze incontaminate, seppure con l’handicap di servizi prossimi allo zero.
La scelta cadde su Le Castella, affascinante fortezza aragonese circondata dal mare.
Ora se uno fosse andato a pensare che, caso nel caso, là avrebbe incontrato l’amore, si sarebbe fatta una grassa risata, giurando sull’impossibilità che queste cose possano avvenire.
Sempre che uno lo avesse pensato.
Ma io non lo feci.
Cosicché quella vacanza poté svelarmi che sino allora, in realtà, io non avevo mai conosciuto quel sentimento che poi ti lega per la vita, che ti unisce anche quando questa s’imbizzarrisce e vorrebbe scaraventarti a terra, cavaliere oramai non più sopportato.
Resta il fatto che da quell’incontro non ho mai più riprovato quelle sensazioni così forti e sarebbe dunque sciocco oggi privarsene, anche se la vita, per tutti, non è sempre rose e fiori.
Una premessa alla storia è d’obbligo: il colpo di fulmine è l’esatto contrario del sentimento ragionato. Questa banalità dovrebbero saperla tutti, ma pochi l’hanno sperimentata.
Il fatto è che quando ti innamori all’improvviso, quando hai il tuo love at first sight, in realtà la tua mente si disconnette e soltanto le reazioni chimiche automatiche che il tuo cervello dispone l’una dietro l’altra riescono a guidarti.
Come? Esclusivamente in base all’odore che emana la sua pelle, al colore dei suoi occhi o dei suoi capelli, al suono della sua voce, all’espressione di quella creatura meravigliosa che ti ritrovi dinanzi e che, assurdamente e misteriosamente, in una frazione di secondo, ha azzerato la tua memoria, facendo esplodere senza controllo tutte quelle emozioni che ti eri sforzato di mantenere serrate al tuo interno.
Dall’esterno gli altri vedono dinanzi a loro soltanto un involucro umano con la faccia stranita, che atteggia bizzarramente occhi e bocca e che gesticola senza ragione apparente.
Quello, più o meno, ero io dopo l’incontro con Pina.

L’undici luglio tornavamo sconvolti dal mare dopo quattro ore di sole canicolare.
Bocca e gola somigliano a carta vetrata. Lo stomaco brontola infelice, perché tra i succhi gastrici galleggiano tristemente soltanto pochi rimasugli di frutta di stagione, certo molto politically correct, ma dal volume irrilevante anche prima della masticazione.
Il corpo è in ebollizione, avendo dovuto patire la mancanza di una qualsiasi zona d’ombra su di una spiaggia chilometrica.
L’unica cosa che affiora alla mente è l’immagine di una meravigliosa doccia fresca.

Le nostre sono le uniche due tende del campeggio, nonostante il periodo già abbondantemente estivo. Al Camping degli Ulivi tutto invece era ancora provvisorio, tutto in completamento, in attesa dell’agosto e di una ipotetica stagione che sarebbe durata al massimo un mese. I simpatici padroni ci avevano delegato non soltanto l’uso della cucina, ma anche quello di guardiani, visto che il giorno prima ci avevano messo in mano le chiavi del cancello e se n’erano andati. E tornando rinfrescato e gocciolante, li vedo giustappunto ripresentarsi in compagnia di due ragazze.
Mentre li vedo venire verso di me penso che ho fame e che sarà il caso di andare a preparare degli spaghetti. Incrocio il gruppo e mi presentano: in quel preciso istante un altro nodo della vita si stringe.
Il cielo rimane azzurro, gli olivi verdi, il muro della cucina bianco, la mia macchina rossa, ma io… io i colori, non li vedo più.
Ridicolo, penserete voi.
Si, ridicolo per voi che non stavate cadendo dentro quegli occhi meravigliosi.
Io, invece, annaspavo come Alice che precipita nella tana del Coniglio Bianco e mi chiedevo dove stava scappando la mia vita, dove fuggiva il mio raziocinio, che, dandosi alla fuga giù, sempre più giù, faceva si che io smarrissi il senso del tempo e della realtà.
Credo che qualcuno mi abbia dato di gomito, perché all’improvviso ho pensato che dovevo invitarla a pranzo, trattenerla lì ancora un po’ di tempo.
Diciamo, per usare un eufemismo, che in quegli anni ho sempre avuto molta comunicazione con le donne, ma quella volta capii che la situazione era molto, ma molto più complicata. I miei occhi non si staccavano da lei, che, sarà stata la curiosità o la novità, rispondeva al mio corteggiamento lampo.
Ora in tutto questo deve entrarci il destino, anche se a me, francamente, questa del destino era sempre sembrata una bufala bestiale, creata ad uso e consumo di coloro che devono vivere continuamente in rimessa.
Più probabilmente il destino è una condizione di comodo che ci creiamo a posteriori per dare un significato alla nostra afflizione o alla nostra felicità, ovvero per giustificare i nostri atti, che non sempre sono rispettosi delle altrui esigenze. Ed a ripensarci oggi, effettivamente, mi accorgo di aver vissuto quei giorni, quei fotogrammi di vita, in maniera totalmente egoista, pensando soltanto ed esclusivamente a quello che sembrava il mio bene.
Gli altri erano scomparsi o al massimo fungevano da supporto al mio agire. E sicuramente avrò fatto male a più di uno.
Ma sta di fatto che io ero lì a dividere la pasta con lei, a parlare con lei, a bere con lei, a cercare di capire chi era lei, a chiedermi se ancora avrei potuto vivere senza di lei.
E più ci pensavo e più concludevo che no, senza di lei no.
Ed allora forza, muoviamoci, cerchiamo di conquistarla questa benedetta donna dagli occhi verdi.
Cosicché il giorno di poi, al mare, si tornano ad utilizzare le vecchie tattiche della tea-room, che prevedono nel nostro caso una mitica lettura collettiva della “Collina dei conigli”, con esibizione di tutte le penne a disposizione, comprese quelle prese in prestito dal pavone dell’appartamento accanto. Il tutto accompagnato dal classico comportamento disinibito stile sessantottino, ovvero parole in libertà, quintali di idealità nebulizzati e solidarietà femminista.
In definitiva un gran polverone di poca sostanza, ma di grande effetto.
Risultato immediato basso, ma splendide prospettive per il futuro.
Sennonché il terzo giorno era previsto, tragicamente, il rientro in patria.
E l’annodato gomitolo della vita s’ingarbugliò ancor più. Io decisi, temerariamente ed incoscientemente, di diventare un altro. Lei decise, imprudentemente e audacemente, di provare a divenire un’altra.
Da allora siamo una coppia, ci amiamo e ci graffiamo come a tanti accade, ma passiamo comunque insieme attraverso questi tempi difficili. I nostri figli ci vogliono bene, anche se, a volte, certo non ci capiscono. Ma questo a chi non succede?
Certo dicono che la vita ci plasma e ci rende diversi, ma la mia immaturità sentimentale me la fa sentire vicina come allora, anche se lei crede che questo non sia possibile.
Di lei, credo, non potrei fare a meno, come di quel sogno di libertà che mi porto dietro da sempre. E so che il suo, seppure apparentemente diverso dal mio, è vero amore, come tutta la sua storia accanto a me sta a dimostrare.


Gianni e Gianna
I miei primi amici, Gianni e Gianna, sono praticamente nati con me, insieme abbiamo frequentato gli stessi luoghi, contemporaneamente abbiamo creato i primi giochi.
Quando questa situazione capita, ed è ben rara, annulla poi qualunque Oceano Temporale la vita tenti di frapporre.
Avevamo casa mia come scenario, gli accordi segreti e le parole sussurrate come copione, noi tre bimbi trasformati in attori inconsapevoli della vita.
Un legame unico, osmotico, una fusione del sentire che non sarà più cancellata.
E se Gianni è stato il mio alter ego in più di un’occasione, quelle sentimentali comprese, è pur vero che la nostra amicizia non ha mai abbandonato il terreno del bon ton, io rispettoso dei suoi spazi per imposizione culturale, lui dei miei per disposizione naturale.
Credo che una sorta d’ammirazione sia valsa nei due sensi, ognuno di noi conscio dei propri limiti e desideroso di imitare le conquiste psicologiche dell’altro.
Almeno così penso e spero, visto che per me senz’altro lo è stato.
Gianni è stato molto di quello che avrei desiderato essere, ma credo che certe scelte, se scelte sono, non possano prescindere dalla formazione e dalle abitudini culturali.
Ed io ho sempre viaggiato molto al di sotto dei suoi livelli, anche se a volte credo di essermela cavata meglio. Con lui, come ho già detto, il rapporto è viscerale prima che intellettuale. Crescere insieme poi vuol dire anche somigliarsi un po’, specialmente per quella parte di mondo che attiene all’etica.
Le scelte di base permangono nel tempo, anche se le vicende di ognuno di noi hanno epiloghi diversi.

Con sua sorella è stata tutta un’altra storia.
Gianna è stata il prototipo del mio ridimensionamento sentimentale.
Lei è stata quella che mi ha involontariamente costretto ad imparare le tecniche che domano dolcemente l’amore per trasformarlo in vera amicizia. Innamorarsi bambini è pur sempre un guaio, specialmente quando il primo amore rimane a galleggiare poco lontano da noi nel lago della nostra coscienza. Per vivere queste storie dovremmo avere una nostra privata Delorian e la possibilità di lanciarla attraverso tempo e spazio. Ma visto che così non è, la nostra disciplina interiore c’impone di soprassedere, possibilmente senza covare tormenti cinquantennali. E’ che, a volte, nonostante il cuscino di piume premuto con forza, quel sentimento si rifiuta di essere soffocato ed urla e scalcia e si ribella.
E noi rimaniamo degli assassini mancati.
In effetti l’esperienza conferma che quando si è sufficientemente piccoli da non poter essere sedotti dal turbine dei sensi, si è indubbiamente al sicuro da tutte quelle pene, che poi, invece, la pubertà, l’adolescenza e l’età adulta ci proporranno, quasi appartenessero ad un ipotetico piano di studi per il nostro obbligatorio corso di Scienza della Maturità. Confesso che, a tal proposito, a suo tempo ho avuto modo di seguire vari corsi di recupero e non poche lezioni private, ma, nonostante ciò, la mia laurea devo ancora conquistarmela.
Certo è che da quando lei, la ragazzina della bici rossa, iniziò a farmi compitare, non ho più avuto un tempo della vita nel quale mi sia potuto sottrarre a quegli esami.
Penso che ognuno di noi, in realtà, abbia avuto queste stesse mie prime sensazioni.
Tanti batticuori che, in seguito, la vita ha apparentemente sepolto sotto altre ansie ed altri ricordi. Chiunque li avrà provati, avrà nondimeno notato che quelle particolari emozioni, più di tutte, riescono a sopravvivere nell’attesa della nostra maturità di cinquantenni.
Allora, e soltanto allora, il programma genetico che le governa sembra ridestarle, guidandole sino alla superficie del nostro sentire. Cosicché una mattina, una qualsiasi, magari andando al lavoro, mentre stiamo rimuginando su quanto potevamo avere dalla vita, quei sentimenti riaffiorano inaspettatamente alla mente e ci rendiamo conto, con lucidità, che siamo al famoso giro di boa, alla resa dei conti, allo zenit del nostro vivere algebrico.
E spesso concludiamo il nostro ragionamento ottenendo un segno negativo.
Ma la vita, che certo non bada alle nostre gioie o ai nostri tormenti, a volte ci porta in dote gli strumenti per resistere. Alcuni di noi, favoriti dalla sorte, si accorgono di possedere particolari qualità: la capacità di continuare a sognare anche con i piedi ben piantati per terra, la caparbietà di perseguire un fine per l’intera vita anche se questo pare impossibile da realizzare, la pazienza ed il controllo necessari per non soccombere a quest’impresa.
Io, fortunatamente, sono uno di loro.

Fabrizio
Fabrizio, mio fratello adottivo, l’ho invece incontrato a scuola, nel mio anno di costrizione.
Lui era tutto quello che sino allora non avevo conosciuto: veniva da un paese del circondario da me inesplorato, parlava uno slang diverso, tifava per una squadra diversa da quella di tutti noi fiorentini.
Apparentemente impacciato, a prima vista confusionario, risultava poi essere tipo tosto, con una mente più ordinata della mia, un giovane uomo aperto al nuovo, in crescita, mentre io già credevo scioccamente di aver raggiunto il massimo.
Calmo, metodico, pensava prima di parlare. Tutte qualità nuove per me, che mi ero sempre maldestramente buttato nella difesa di tutto, se quel tutto era attaccato.
Abbiamo iniziato a frequentarci ed a scoprire che ognuno di noi niente conosceva del mondo dell’altro. Abitavamo a non più di dieci chilometri, ma era come se fossimo sulle sponde opposte dell’Oceano.
Ho conosciuto i suoi nonni (ed i miei erano già deceduti) e suo padre e sua madre.
Ho incontrato, con lui, una “nuova civiltà”, quella della campagna, delle Case del Popolo e degli orti e poi quella dei quartieri dormitorio, quella dei militanti del vecchio PCI.
Pensavamo di contrapporci al loro tradimento, ma in realtà contestavamo soltanto età anagrafica ed esperienza di vita, per molti di loro figlia del compromesso e della viltà intellettuale.
Al contrario, quei suoi genitori berlingueriani, quei nonni odorosi di casa colonica, mi emozionavano positivamente. Mi gratificavano i loro apprezzamenti, o pur anche la corretta contestazione delle mie tesi.
Mi piacevano le parole di quei progenitori di un altro tempo e di un altro luogo, antenati che si amavano prima di sopportarsi, persone care come elfi e criceti. Ricordo intensamente il loro parlottare, il loro mangiare separati, i consigli dati come ordini.
I loro figli, genitori di Fabrizio, erano molto diversi dai miei.
Una madre molto aperta, generosa e diretta ed un padre apparentemente duro, ma dal cuore immenso, un uomo costretto in un ruolo esteriormente autoritario, caratteristica della quale
-sono certo- volentieri si sarebbe liberato, se costume ed abitudine, convenzioni e carattere non ve lo avessero inchiodato. Un compagno che non ci capiva e le cui idee non condividevamo. Ci scontravamo per immaturità, perché ancora non comprendevamo la profonda, indistruttibile, duratura onestà che lo muoveva e lo sosteneva.
Quelle caratteristiche le apprezziamo solamente oggi, noi finalmente cinquantenni, dinanzi allo sconquasso di una società senza regole e senza remore, senza alcun attaccamento alla dignità personale.
Fabrizio mi ha accompagnato, nel bene e nel male, in questi ultimi trentacinque anni, condividendo con me esperienze e speranze, angosce e delusioni ed ancor oggi capisce con esattezza i miei limiti e non li oltrepassa.
Insieme siamo stati sui prati di Boboli spartendo paure ed emozioni per i primi approcci con l’agognato altro sesso; insieme abbiamo affrontato i suoi ed i miei problemi quando quei contatti divenivano storie che speravamo serie; insieme abbiamo conosciuto la politica, quella dei lacrimogeni e quella delle interminabili riunioni; insieme abbiamo superato quelle incertezze che i tempi ci ponevano dinanzi, riunendoci quando tutti erano risucchiati dalla diaspora dell’ideologia.
L’uno all’altro ci siamo appoggiati e ci appoggiamo quando la realtà ci sospinge in un angolo, quando vorremmo che gli altri capissero cose per noi banali, ma che, evidentemente, risultano incomprensibili all’esterno.
Insieme vorremmo passare il domani, anche se oggi il sentirsi ed il confrontarsi è quasi diventato un lavoro, presi come siamo dall’inutilità della vita.


Tiziana
Di Tiziana ricordo invece che da sempre ha preferito altri, o forse che da altri è stata maggiormente attratta, pur sentendosi intimamente legata a me.
Francamente ancora non posso darle torto, preso com’ero allora dalle mie incertezze, dalla mia poca sapienza e dalla scarsa disponibilità a conferire certezze.
In realtà anch’io, come lei, allora cercavo “un centro di gravità permanente” e non sapevo (e forse neppure lei) quanto sarebbe stato poi greve quel peso.
La prima immagine è il suo pancione di gestante, faticosamente imprigionato in una tenda durante il più squallido campeggio libero che si ricordi a memoria d’uomo.
Là, sposa forse ancora felice, ho imparato ad ammirarla ed a condividere i suoi pensieri.
Quando le cose poi cominciarono a non andare più nella sua vita sentimentale io avrei potuto cercare di conoscerla meglio e meglio farmi conoscere, tentare insomma di avvicinarla sentimentalmente, perché condividevo certe sue ansie, certe sue irrequietezze.
Ma la distanza che la vita aveva creato fra noi era ancora troppa ed eccessive erano ancora le sue speranze e le sue aspettative. Tutte attese da realizzare con qualcuno che certo poteva offrire più di me, mai come allora esitante del mio domani.
Ed in quel momento il mio sentimento cominciò obbligatoriamente ed inevitabilmente a cambiare. Avevo capito che seppure lei viveva la sua storia sentimentale con un altro, poteva diventare però il mio alter ego femminile, lo specchio attraverso cui poter continuare ad osservare la giovinezza dei miei sentimenti.
Insomma, certo l’uva forse non era così acerba, ma senz’altro era ad un’altezza troppo elevata per me.
Il tempo trascorso da allora ha ancor più affinato la nostra comune sensibilità, forse proprio in virtù della nostra obbligata lontananza, che s’interrompe magicamente ad una visita o ad una telefonata, occasioni che abbattono ogni barriera e che ci fanno sentire vicini come sempre. Forse tutto questo è soltanto l’aver sviluppato entrambi una tecnica psicologica di sopravvivenza o forse è soltanto aver capito che la notte è ancora lunga e che nell’attesa che passi, ogni cerino acceso può essere utile, specialmente se riusciamo a convincerci che ha la potenza di una fotoelettrica.


Gli altri
E poi ci sono stati gli amici e le frequentazioni della scuola; i compagni, ad esempio, della foto di quinta elementare, calzettoni e facce rubizze, cognomi che riconosci quaranta anni dopo in una targa d’ottone od in un’insegna di negozio. Li rivedi, ma sono soltanto deja-vu dell’era primordiale, fantasmi che vivono altre vite. Non gli appartieni e non ti appartengono più.
Crescendo stabilisci invece rapporti più raffinati, più approfonditi, condividi le scelte e selezioni: crei rapporti per affinità e non per tributo alle convenienze. Il tempo delle vacanze, ad esempio, viene gestito in una nuova comunanza d’interessi, così da sentirsi più adulti tra adulti. Ed il trascorrere del tempo fa si che gli indisciplinati, egoisti bimbi di un tempo, si trasformino così in avventurieri seri e ligi alle regole della fantasia.
Le prime esperienze, quelle che ricorderemo per sempre, quelle consumate su una spiaggia o ai piedi di un castello, assurgono così a senso della vita, si elevano a rituali magici di noi amici, noi compagni d’arme e d’avventura, noi soli gitanti fuori stagione, in caccia perenne di trofei sentimentali sulle spiagge dell’Isola Che Non C’è.
E poi verranno una nuova maturità e nuove passioni, nuovi e sconosciuti amici, verso i quali, a differenza del passato, si dovrà sforzarsi di avere limitate attese. Ma ciò nonostante la vita comunque tornerà a tentarci e la passione ci manderà in crisi d’astinenza, perché quelli come me devono sempre sperare oltre il lecito e il logico.

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Firenze, oh cara!

Quando si nasce in una città come Firenze se ne rimane dominati per tutto l’arco della vita, a maggior ragione se si viene al mondo ai piedi della roccaforte romana che delimitava il primo quadrilatero.
Dell’essere e del sentirsi fiorentini molto si è detto e scritto, o almeno tanti di noi, cittadini dell’Ombelico del Mondo, hanno creduto di aver raccontato.
Ma all’interno di questo comune modo di sentire determinato dal nostro Dna, stanno mille vite diverse ed ognuno di noi crederà di aver vissuto la propria in maniera originale e senza uguali.

La mia Firenze, nonostante tutto, era ancora quella degli Sthendal e dei Pratolini: lo stupore della bellezza temperato dal carattere volitivo ed un po’ stizzoso della sua plebe.
Per le strade, sulle rotaie del tram, facevano ancora bella mostra di sé gli escrementi dei cavalli asserviti alle carrozzelle che portavano a spasso la borghesia straniera in visita.
Erano questi, ancora e soltanto, turisti facoltosi, ospitati da hotel che si ammantavano esclusivamente del fascino dei propri nomi ed a cui ancora non serviva l’attribuzione del primato delle quattro o delle cinque stelle.
L’ideale ombra della fortezza capitolina, sfiorando la rocca del Bargello e le arcate del chiostro, delimitava i confini del mio mondo.
Sono nato tra l’arte, ma l’ho vissuta come i gatti vivono i Fori Imperiali.
Eravamo, insomma, gli eredi degli Dei decaduti e neppure lo immaginavamo.
Di quella casa, di quel chiostro, di quelle cantine ricordo soprattutto i tanti misteri e le molte paure, paure che la mia fantasia generosamente alimentava. Avevo timore del buio delle antiche celle dei monaci, prima trasformate in laboratorio di falegnameria e poi in deposito per la legna da ardere, il cuore batteva dinanzi ai pertugi nei muri, che esplorati con le torce elettriche, rivelavano così altre stanze mai aperte e preoccupazione mi suscitava il rossore guizzante proveniente dallo scantinato, in cui ronfava o ruggiva la caldaia comune.
Sotto il giardino, che un tempo doveva essere stato semplice cortile, passava poi il collegamento tra l’ex convento e l’ex carcere del Bargello: la rarità di quel passaggio, murato dalla milizia fascista prima della guerra, rappresentava l’essenza stessa di quel mio abitare particolare. Ma che questo mio vivere quotidiano fosse differente dalla norma, mi fu chiaro soltanto quando amici e compagni di scuola cominciarono a frequentare casa mia, sempre pronti a chissà quale avventura, a chissà quale avvenimento.
Di là dalla cancellata che delimitava questo mio mondo rinascimentale, fluiva la vita del quartiere: il rumore dei barroccini dei souvenir apriva la giornata, il rumore dei camion dei corrieri la chiudeva, mentre le ore rintoccando dal Duomo e dalla Badia segnavano il nostro tempo.
Il silenzio, al mattino, era rotto dal parlare dei bottegai che si avviavano ad aprire i loro negozi e da quello degli operai che s’incamminavano al lavoro, ma, soprattutto, da quello dei bambini che andavano a scuola.
I negozi, da cui la mia città ha sempre tratto la linfa, erano ancora quelli degli artigiani e dei piccoli commercianti, che cumulavano i crediti sui quaderni di scuola dei figli, in un patto non legalizzato con chi aspettava la paga a fine settimana o a fine mese.
Quei negozi, è superfluo dirlo, non esistono più da tempo; neppure i più aristocratici, né quelli che sembravano parte inseparabile dell’ambiente, quelli che, quando chiusero, portarono con sé anche un po’ di tutti noi.
In Piazza S.Croce, tra una partita di pallone ed una baruffa, ci spellavamo le ginocchia sul breccino e le biciclette, a volte, avevano i cerchioni nudi.
Il latte si andava a prenderlo con la bottiglia vuota, il ghiaccio bruciava le mani anche con i guanti, quando dovevamo fare il cambio alla ghiacciaia.
Dal fornaio si attendeva per prendere la schiacciata fumante e bastavano pochi spiccioli; sotto l’arco di S.Piero nel semel, la rosetta papalina, facevamo mettere il sangue di maiale appena rappreso sulla piastra rovente e l’ampiezza della spolverata di parmigiano che lo accompagnava ne determinava la bontà.
Al mattino, dovendo essere per mia madre uno scalino sopra i miei coetanei, nel latte ricevevo la doppia cucchiaiata d’Ovomaltina che, si diceva allora, doveva dar forza. Era, in realtà, la prima dimostrazione di sottomissione delle famiglie operaie alla nuova reclame martellata dai Caroselli televisivi.
Si, perché intorno alla quarta elementare anche in casa mia apparve il glorioso carrello porta -televisione, con apparecchio annesso.
Il mattino trascorreva alle dipendenze del vecchio maestro, regolarmente munito di gabbanella nera e righello punitivo.
A pensarci oggi sembra di rivedere quei film in bianco e nero che passano a tutte le ore durante la programmazione estiva.
La scuola, rigidamente maschile, guardava alla Badia, alla Torre Guelfa ed alla Casa di Dante. Noi occupavamo i rigidi sedili dei banchi prebellici, di cui ricordo con nitidezza i calamai ed i porta penne. Non ci toccarono le aste, è vero, ma paginate di vocali schizzate d’inchiostro certamente si. E poi tutti in fila militare sul terrazzo a consultare, tra le deiezioni di piccione, la mitica stazione meteorologica, con annessa targa indicante l’anno dell’era fascista in cui era stata donata alla scuola.
L’eclatante alternativa era il gioco delle bandierine, dove i più scafati di noi, al solito, ottenevano i migliori risultati, relegando i figli degli aspiranti piccolo borghesi al ruolo di comprimari. I miei calzoni corti all’inglese ed il fiocco con abbinato colletto bianco giornalmente inamidato, mi relegavano di diritto in quella categoria.
Il pomeriggio era la mia rivincita.
Il campanello di casa trillava più volte, erano ora gli altri a cercare di ottenere un posto in prima fila in quel giardino che a noi sembrava un parco divertimenti.
I perimetri delle aiuole, di roccia spugnosa, divenivano Texas ed Eldorado, le folte piante grovigli amazzonici o boscaglie nord americane. I miei soldatini completavano l’effetto Cinemascope. Con il cuore in gola facevamo combattere quegli indiani e quei cow boy, quasi dipendesse da noi la loro reale esistenza ed ancora non sapevamo niente di sangue e violenze, di riserve e di colonizzazioni forzate.
In quel giardino, esotico quanto nemmeno Paolo Conte avrebbe potuto immaginare, ho provato le prime emozioni sentimentali, quelle che ti lacerano l’anima con la loro inconsistenza, tanto leggera quanto acuminata.
Una bimba dall’essenza originale, scrisse il suo nome sul libro della mia esistenza, dando l’imprinting al mio mondo sentimentale ed oggi, come succede a tutti i veri primi amori, ancora è là nell’orizzonte del mio vivere quotidiano.
Lei e suo fratello, suo padre ed il loro nonno, m’insegnarono poi, quando potei capire, che cos’è la dignità, la profonda, rara qualità che ci vuole rispettosi di noi stessi e degli altri.
Il giardino fu poi spazzato via dalla pazzia dell’Arno e gli architetti vanitosi che lo ricostruirono in seguito, lo fecero senza emozioni.
I soldatini finirono regalati o in soffitta, nuova vergogna di un adolescente.
La ragazzina della bici rossa fu allontanata dal vento della vita, che per tanti anni è in seguito soffiato, prepotente e ribelle, nel mio cervello.
Gli anni settanta bollarono tutti noi: eravamo convinti di essere gli Adamo ed Eva della nuova società, l’originale confine tra il possibile ed il desiderabile, tra l’ottenuto e l’ottenibile. Naturalmente subito.
Firenze si fece rossa di bandiere, l’aria si riempì di sirene, si respirava dietro un fazzoletto, uno spicchio di limone in bocca.
Noi dovevamo fare.
Cosa? Tutto e forse il contrario di tutto.
Quei giorni intensi, se appena chiudo gli occhi, li ritrovo lì, vividi come fossero trascorsi soltanto pochi minuti. Non sapevamo niente e non c’interessava più di tanto. Eravamo in credito e volevamo un anticipo; sembrava impossibile che ci fosse qualcuno che si opponeva a questo.
Firenze furono allora soprattutto piazza della Repubblica, piazza Strozzi, i Viali e gli archi della città risorgimentale. Là c’inseguirono e ci bagnarono, ci ottenebrarono gli occhi e ci colpirono le reni. Qualcuno conobbe Borgognissanti, i calci ed i pugni, le lacrime ed i tardivi pentimenti di comodo.
Superammo tutti quel periodo, ognuno a modo nostro.
In Piazza Signoria s’incominciarono a vedere le vesti arancione dei seguaci del Guru di turno, il verde degli eskimi iniziò a diradare, in una sorta d’autunno rivoluzionario.

I colori della passione potevano anche avvizzire, ma gli aromi della vita rimanevano gli stessi.
Ogni periodo di quella Firenze che cambiava attiva ancor oggi in me un ricordo olfattivo: all’inizio i profumi del giardino, dal gelsomino alle “belle di notte”, dalla vite centenaria all’oleandro, poi la piacevolezza intensa del profumo del caffé proveniente dalla torrefazione all’angolo e l’odore della frutta o del pesce al Mercato centrale, cattedrale del gusto fiorentino.
La memoria della fragranza dei biscotti della Premiata Ditta Digerini e Marinai, che noi compravamo sciolti e difettati per risparmiare, ancor oggi mi produce un’immediata maggiore salivazione, in un flashback in cui appaiono enormi sacchi traboccanti di frollini.
La mia città era l’effluvio emanato dalle siepi di bosso dei giardini di Boboli, l’odore di terra bagnata e muschio, il profumo della borracina delle sue fontane antiche. L’ aroma dolce e struggente dei “duri”, del nocciolato o del torrone sulle bancarelle della Festa del Grillo.
Poi fu soltanto l’acre puzzo dei lacrimogeni e del nostro sudore di giovani uomini in fuga.

Gli anni trasformarono Firenze ed ampliarono obbligatoriamente la mia conoscenza toponomastica. Per conoscere mio fratello adottivo ho dovuto superare le Colonne d’Ercole del Villaggio di Don Mazzi, seguire gli argini dell’Arno, in quei punti sconosciuto, sguazzare tra il fango di nuovi cantieri.
Oggi Firenze ha fagocitato anche quelle rive, trasformando il passeggio dei vecchi nei nuovi percorsi dei corridori della domenica.
Anche le prime ragazze mi portarono a varcare la cinta cinquecentesca e qualcuna mi fece pure scalare le colline.
Il bar di Piazza Davanzati era diventato il nostro regno: ricevevamo nella saletta sottostante, come chiromanti, imponendo le mani sopra le tazzine del caffé.
Le ragazzine più giovani pensavano fossimo i veggenti del nuovo… eravamo soltanto i vati dell’abbandono scolastico.
La fortuna ed un po’ di furbizia tutta italiana mi aiutarono a superare maturità e servizio militare ed al ritorno riuscii anche a trovare lavoro senza troppi patemi d’animo.
Le Ferrovie dello Stato, poi, mi salvarono dal calvario di una vita da commesso di negozio al Porcellino ed io iniziai i miei anni da pendolare.
La casa in cui già abitavo e che era stata la dimora di una giovane coppia di pensionati della psiche, conobbe carattere ed abitudini di una nuova compagna.
In quella casa avevo vissuto paure serenamente condivise, che mi avevano reso insensibile alla passione. Il nuovo, invece, creò il caos, che forgiò a sua volta un nuovo modo d’intendere il mondo.
E la passione, com’è solita fare, generò.
Il primo fu un figlio maschio, il prolungamento di una specie che si stava spegnendo.
Furono gli anni della comunanza delle idee e della scoperta di nuovi luoghi dell’anima.
Fu la riscoperta di vecchi e nuovi giardini, di ludoteche e di barretti di periferia con annessi giochi per l’infanzia. Furono i golfini e le felpe dei negozi del centro, la presenza “militante” nella scuola materna e poi elementare.
Ma furono anche gli animali fantastici della Specola, le armature del Bargello, i segreti del Forte di Belvedere, cosicché i miei luoghi privati divenivano ora patrimonio familiare.
Mi osservavo così per la prima volta dall’alto, in una sorta di ritorno al futuro.
Avevo un figlio e Firenze era il suo parco giochi, la sua scuola di quartiere, il suo primo accostarsi alla generosa cattiveria di questa città.
Il Sud della metropoli era diventata la mia nuova patria: ero alle pendici delle colline e su quelle spesso fuggivo con tutta la compagnia. Ricordo il profumo delle ginestre, dei pini marittimi, ma anche la paura ad avventurarsi sui prati nei giorni angoscianti di Cernobil.
E poi le feste sul lungo fiume dell’Anconella, mentre il PCI si trasformava in Quercia e l’impegno dei volontari era sostituito dalle cooperative della ruota o del turacciolo ed il vecchio terrorismo declinava nell’inevitabile fine che aveva perseguito e che altri avevano pianificato.
Le vecchie fabbriche avevano chiuso ed i CPA che n’avevano preso il posto erano già oltre il loro zenit.
Si stava per chiudere anche la prima fase del nostro ciclo.
La mia Firenze iniziava ad asfissiarmi. I suoi Viali, come cloache a cielo aperto, emanavano sentore di piombi velenosi ed anche il pozzo del giardino di mia madre si era quasi del tutto seccato spandendo l’odore della sconfitta.
Il desiderio di fuggire alla Firenze caotica delle torme tartariche era diventata un’esigenza primaria.
Fu così che la seconda figlia ci forzò volentieri alla transumanza verso la campagna pistoiese. Là, lavorando, avevo iniziato ad apprezzare tutti quei silenzi che nella mia città non esistevano più.
Percorsi così nuovi vicoli, oltrepassai nuove isole d’ombra, sfiorai con le mani e con gli occhi l’arte longobarda del nuovo paese. Odorai, dopo tanto tempo, la fragranza delle rose di maggio e dei tigli in fiore. Udivo di nuovo, dopo anni, il suono dei miei passi sui vecchi lastricati.
Ciò nonostante non è stato semplice, come non lo è mai stato per nessuno, far l’emigrante, seppure di piccolo cabotaggio.
Nel tempo mi sono poi adattato ai nuovi ritmi, alla mancanza d’invisibilità a cui ero abituato, alla condivisione della noia.
Ora torno alla mia città come un turista e mi meraviglio delle code ai musei o della desertificazione del centro, dove gli anziani sono costretti ad acquistare come americani ed a sopravvivere come africani. Oggi la mia città rimane dentro di me, non semplicemente come un luogo geografico, ma come il posto dell’anima, la passione viola, il luogo ideale da ricordare e per ricordare. Insomma, lo scrigno ideale dove tenere nascosti ricordi ed emozioni, nell’attesa di lasciarli in dote ai miei figli

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