Vigna Vecchia 15
Oggi sono tornato. Per entrare ho usato le stesse chiavi di allora, quelle che avevano ratificato la mia prima maturità.
Forse domani cambieranno la serratura e queste mie visite diverranno impossibili.
Oggi, ancora, entro ed avverto immediatamente il nuovo silenzio.
Lo registro con la mente, prima ancora che l’udito me lo confermi.
Siedo sulla panchina del giardino e fisso le occhiaie vuote di tutti quegli appartamenti che una volta nascondevano vite e sentimenti conosciuti.
Fantasmi, oggi solamente fantasmi della memoria.
Tra le piante di questo giardino io sono cambiato, forse cresciuto.
Attraverso questo giardino, com’era e com’è, sono passate tutte le donne della mia vita: le zie e le vicine, le nonne e le mamme, le fidanzate e le mogli, le amanti e le amiche, le figlie e le fidanzate dei figli.
I caratteri, le parole, le abitudini, i volti di tutte quelle donne sono così ora disseminati qua e là nella memoria ed è bello ricordarle, facendole affacciare mentalmente da quelle finestre, facendole camminare sotto quei porticati, spiandole nei loro gesti quotidiani od osservando segretamente i loro imbarazzi o la complicità che traspare dai loro occhi.
L’Emilia.
Mia nonna veniva da S.Frediano. Dal quartiere delle baruffe e delle bestemmie, degli amori impossibili e del fuoco rivoluzionario e si portava dietro la convinzione di essere nata nell’ombelico del mondo, di essere stata generata al solo scopo di elevarsi socialmente, prendendosi tutte le rivincite che le erano dovute.
Nata impagliatrice di fiaschi, assurse al ruolo di cappellaia e questo fu tutto.
Fece un buon matrimonio, ma guerra e spagnola le furono contrarie. Generò due figli, divisi da dieci anni e da un sentimento materno poco equanime. Mio padre era il minore e per anni l’ho sentito, con garbo, rifiutare l’etichetta di figliolo di serie B.
All’indomani del matrimonio venne ad abitare in centro, lì generò e decenni dopo vi morì.
Ad essere giusti, in realtà, si spense in quel di Montedomini, casa di riposo tristemente famosa a Firenze alla fine degli anni sessanta.
Delle poche visite che le feci, nel breve periodo che vi trovò ricovero, ho ricordi francamente angosciosi, con lei oramai completamente cieca e parzialmente immobilizzata da un ictus, un povero essere umano, che nel suo anticipato buio fisico e morale, mi cercava con le mani protese, forse per sentire in me l’energia della gioventù, il calore di un affetto che lei riteneva pulito e sincero.
Io ero un ragazzo e per di più poco abituato a soffrire: fuggivo da quelle visite e m’ingegnavo a spegnere nel più breve tempo possibile i miei sensi di colpa. Poi sono stato l’unico che ha continuato a frequentare quella parte di cimitero dove si disfaceva la sua tomba, anche quando le fosse erano oramai divenute semplici tumuli di terra, riconoscibili soltanto per una targa o una croce affogate nel muschio.
Niente falsa spiritualità, soltanto un contatto con la terra bagnata o arsa, aspirando l’odore della borracina o delle coccole di cipresso.
Un ricomporre immagini, la mente stimolata dai sensi.
L’ho fatto poi più volte in camposanti e giardini, in case amiche o sconosciute.
Per me la madre di mio padre ha sempre rappresentato il bel tempo che fu.
Bello forse però soltanto perché lontano, affascinante unicamente perché vissuto con la mente sgombra di bimbo, attraente unicamente perché collegato al sogno di poter viaggiare nel passato, alla conquista di quello che non potemmo cogliere.
Lei si dedicava alla casa, badava a me, organizzava la vita di tutti noi, cercando di rimanerne però al di fuori. Grazie a lei mio padre e mia madre conobbero i film neorealisti ed i musei della loro città, mentre io, nella calura estiva, vidi e vissi le scogliere di Antignano, arse dal sole ed aulenti di tamerici.
La nostra era esistenza comune a migliaia di famiglie operaie.
I ritmi quelli del quartiere, scanditi da abitudini tramandateci.
L’Emilia era già quasi cieca, quando l’Arno sfondò il portone del giardino e si arrampicò sino all’ultima rampa delle nostre scale, battendo il record di salto in alto con ben 460 centimetri.
La sua camera, dovendo far posto agli sfollati, divenne per un periodo anche la mia. L’accudivo per quel che potevo, ma poi cercavo di far entrare di soppiatto le ragazze fidando nel suo handicap.
Ci siamo voluti bene e ci siamo parlati, forse molto di più di quello che fanno oggi nipoti e nonni.
Mi raccontava delle lotte per le otto ore, della fatica quotidiana e della solidarietà tra lavoratori, di cosa significava vivere del lavoro a giornata, con la speranza obbligatoriamente alimentata dal niente del quotidiano e con la rabbia per una giustizia che appariva fola per ragazzi.
Mi diceva degli amori e delle disgrazie, quelle degli altri e quelle sue, come quella sera che durante il lavoro, protrattosi troppo a lungo, un fiasco le si ruppe in mano, lasciandole il tendine definitivamente danneggiato e allontanandola così dal lavoro per settimane, settimane in cui si dovette stringere ancor più la cinghia. Ma mi parlava anche del passeggio della domenica in piazza della Signoria e sotto gli Uffizi, della cioccolata calda da Revoire, un lusso che aspettava l’intera settimana.
E poi le passeggiate alle Cascine, che a Maggio propiziarono la canzone rimasta nei nostri ricordi.
Con mia madre era sempre un po’ altezzosa, quasi avendo paura di dover abdicare al suo potere domestico. E mia madre credo che sotto sotto fosse felice di questo ruolo di secondo piano, potendo così dedicarsi al lavoro, a me e soprattutto alla cura della sua persona, alla quale, giustamente, ha sempre tenuto.
Della nonna mi restano i modi di dire, il senso ed il gusto della fiorentinità e la scoperta della Viola, di cui suo figlio maggiore era tifoso sfegatato.
Le ciane.
L’Emilia aveva circa l’età delle altre inquiline del nostro originale condominio.
Tra loro c’era chi amava i gatti e chi si perdeva nelle note di un pezzo classico che arrivavano flebili dalle cuffie di una radio a galena. E chi continuava la pratica dell’orto di guerra, usando a mo’ di vasi le pentole di porcellana o d’alluminio oramai non più utilizzabili. Una babele di forme e di colori che creava un affascinante, selvatico caos.
Ma c’era anche chi filtrava la mala vita quotidiana attraverso la consolazione della lettura della Bibbia, che da noi, uscio e bottega con la chiesa protestante, era pratica auspicabile e diffusa.
Nomi di un altro tempo: la signorina Silvia, la signorina Palmira, la signora Zaira, la zia Armida, tutte attempate e pie donne oltre i sessanta anni.
Il mio giocare a pallone era inframmezzato dai loro richiami e dalle loro proteste, dai loro inviti e dalle loro minacce.
Quando cominciai quotidianamente a scappare in bicicletta verso le Cascine tirarono tutte un sospiro di sollievo.
Mia Zia
Di mia zia che viveva al piano terreno in un appartamento ricavato dalla chiusura delle arcate poste a sinistra del chiostro, ricordo il carattere autoritario e chiuso, l’educazione ferrea impartita a mio cugino, l’apparente impossibilità a sciogliersi in un sorriso o in un abbraccio. Ma ricordo anche il profumo dei meravigliosi dolci sfornati dalla sua cucina economica, che spesso rallegravano nuvolosi pomeriggi o interminabili giornate estive e le volte che mi concedeva di accompagnarla lungo le rive dell’Africo, dove, inebriato dal profumo della fabbrica dei biscotti, rimanevo incantato a guardare i grandi cesti di vimini stracolmi di frolle. La zia non ha mai avuto un buon rapporto con la nonna Emilia; forse gravava su quest’antipatia la gelosia di una moglie verso una suocera troppo amata dal figlio.
Comunque sia, la fortuna di una nuova casa, dopo il dolore della perdita inflitta dall’alluvione, la rese a tutti noi più lontana e gli affetti furono smorzati dalla distanza topografica.
Anni di coinvolgente abitare comune scolorirono rapidamente e la morte prematura di mio zio certo non migliorò le cose.
Quindici anni di rapporti svanirono così in pochi mesi.
Ancor oggi ho un consanguineo che non sento e non conosco, una persona che ha condiviso con me anni di crescita, di segreti e d’affetti: un cugino scomparso in vita, un desaparecido sentimentale.
Gemma
Ora qui seduto su questa panchina, mentre il sole è catturato dalla torre del Bargello, continuo a rivivere la vita di quel tempo e ricordo così la ritrosia di mia madre, la sua difficoltà a stare “a chiacchiera” con la piccola comunità di Via della Vigna.
In lei prevaleva il carattere schivo, la ritrosia ad occuparsi delle piccole cose d’ogni dì, trionfava, invece, la sua difficoltà a stabilire saldi e franchi rapporti umani.
Di questo s’intristiva mio padre, che, invece, socializzava con tutti.
Ma, ciò nonostante, il loro è stato un rapporto grandemente rispettoso delle singole personalità, un elemento, questo, indispensabile per il mantenimento dell’amore in una coppia e, credo, componente essenziale per la sua crescita e la sua stabilizzazione.
Ricordo una fotografia, nella sua semplicità molto bella, di loro ancora fidanzati, colti mentre passeggiano sui Lungarni: come molti loro coetanei sembrano essere usciti da una cartolina commemorativa del giorno della liberazione di Parigi. L’una sottobraccio all’altro, camminano spediti, magri e belli nella loro gioia per una vita che appariva, finalmente, dal futuro sereno. Mio padre con gli occhialini da intellettuale ereditati dal campo di prigionia in Inghilterra, i baffetti alla moda ed un doppiopetto anteguerra sin troppo ampio; lei occhi ridenti, un velo di rossetto sulle labbra, il sorriso aperto e coinvolgente, le gambe snelle e nervose.
Altre immagini seguono nella memoria, quelle fotografiche del loro matrimonio e quelle delle feste al Casinò Borghese, dove mia madre in uno splendido abito preso a noleggio, sembra appartenere alla corte di Versailles, ma nessuna, nessuna come quell’immagine scattata per caso sotto un nuovo sole “liberato”, parla così palesemente di speranze e di voglia di fare, del desiderio di dimenticare e ricominciare da capo una vita diversa.
E, naturalmente, anche della voglia di generare nuova vita a cui cercare di dare tanto, tutto quello, come ci hanno ripetuto per anni i genitori di quella generazione, che loro non avevano potuto avere.
Nessuno di loro, nessuno della loro generazione, si sarebbe mai aspettato poi lo sconvolgimento della fine degli anni sessanta: la contrapposizione con i figli, le incomprensioni, la domanda assillante che si sarebbero posta per anni: dov’è che abbiamo sbagliato? Si scoprirà poi che non loro, ma noi avevamo smisuratamente errato, preda dell’insaziabile voglia di felicità a basso costo.
Noi che abbiamo straparlato di nuovi ideali, di nuove e più perfette giustizie, non soltanto siamo divenuti, com’era nella logica delle cose, i migliori difensori dell’esistente, ma non siamo neppure riusciti a trasmettere le basi minime dell’etica ai nostri figli, a tramandare un qualsiasi motivo per proseguire sulla strada che sin troppo facilmente noi avevamo abbandonata. Il risultato è stato generare ed allevare nuovi uomini e nuove donne senza punti di riferimento: non le nostre sofferenze da cancellare, non i nostri ideali da perseguire, non la voglia di conquistare qualcosa che non sia semplicemente in vendita, non le aspettative per un mondo nuovo, che, anzi, mostra già i bagliori del suo crepuscolo.
Probabilmente non potevamo fare di meglio, ma certo è che nonostante le loro idee “antiquate”, i loro divieti apparentemente insensati, i loro traguardi da raggiungere, la felicità per le loro seicento nuove, per le loro tavole di formica, per l’orgoglio smisurato di avere dei figli che si diplomavano o si laureavano, i nostri genitori hanno fatto ben migliore figura di noi, figli dell’incomunicabilità delle pance piene.
Mia madre era nata da stirpe sannita e di quegli antichi aveva mantenuto sempre il carattere e la forza interiore. La sua è stata storia di lavoro e d’accettazione, ma anche d’emancipazione ed indipendenza.
Se gli è mancato qualcosa è stata unicamente l’impotenza a combattere la battaglia dei sentimenti, la forza di misurarsi nella lotta quotidiana per capire a fondo coloro che gli erano vicini negli affetti e che, a volte, chiedevano a lei aiuto ed indirizzo senza trovarli.
Mia madre avrebbe avuto bisogno di una sorta di manuale Cencelli dell’amore, che le dicesse, per filo e per segno, cosa fare e cosa dire, quanto chiedere e quanto concedere.
Così è stato verso mio padre, così è stato verso di me.
Quando nasce sui monti dell’Appennino meridionale, è già un po’ diversa dalle sue coetanee: i genitori sono medi possidenti agrari e lei va a scuola evitando il lavoro dei campi.
Può frequentare sino alla seconda classe delle medie superiori, nella speranza di approdare all’insegnamento, ma trova posto al Monopolio Tabacchi ed il primo stipendio che lo Stato le dà è cosa troppo importante per essere gettata al vento. Specialmente per una famiglia dove il padre è già grande invalido di guerra e dove lei è la maggiore di quattro figli.
Lavorare a diciassette anni la rende consapevole della limitatezza della vita di paese, della noia di una promessa di matrimonio confezionata su misura, dell’asfissia provocata da un ambiente che oramai aveva perso anche il fascino del decaduto regime, sprofondando tutti nella lotta per la sopravvivenza.
Naufragati i fasti dell’Impero, nuove paure e dolori erano giunti con l’arrivo delle truppe di colore mandate allo sbaraglio dall’esercito alleato.
Il passaggio del fronte distrusse in poco tempo sia le vecchie certezze sia le nuove speranze. L’inflazione, nel frattempo, aveva mangiato rendite e risparmi, suo padre era morto ed i fratelli erano stati mandati in collegio a Firenze.
Gli studi erano oramai stati interrotti e sembrava doveroso seguire i fratelli più piccoli nella nuova città. Il destino non permise il suo trasferimento al Monopolio e lei fu retrocessa al ruolo di atta a casa.
Di lì ad un anno iniziarono i ritorni: migliaia di ex prigionieri tornavano ad abitudini quasi dimenticate dopo più di un lustro di lontananza.
E fu così che un reduce fra i tanti, incrociò la sua vita con una delle tanti sfollate.
Per mio padre fu un colpo di fulmine, per mia madre la scoperta di una persona diversa, l’opportunità di vivere una vita dignitosa accanto ad un uomo che la considerasse e l’apprezzasse per le sue capacità.
L’amore a volte si costruisce giorno per giorno e questo fu il suo caso.
La loro speranza e la loro buona volontà mi catapultarono in questa vita ad allungare il brodo di un DNA sempre più raro nella nostra casata.
Di me piccolo e di lei giovane ricordo i viaggi giornalieri al Mare dell’Anconella, ovvero le rive sabbiose di un Arno che ancora allora il poeta poteva definire d’argento senza tema di smentita. Là, come in Versilia, ci accoglievano ombrelloni e sdraio, risa, secchielli e salti dal trampolino, dove i giovani dell’epoca, oggi attempati pensionati, facevano mostra di coraggio e sguaiatezza.
Era una mamma che lavorava e che dunque era presente a tempo.
Ancor di più era impegnato mio padre, che la vedeva spesso soltanto la sera e che con lei scambiava poche parole, vuoi per la stanchezza che pesava su entrambi, vuoi per una certa tensione spesso presente, fatta di piccole insoddisfazioni e di sogni mancati.
In sottofondo la nostra radio che trasmetteva le notizie o le canzoni di Villa o quelle dei nuovi urlatori, cantanti ai quali mio zio prediceva vita breve; due su tutti: tale Mazzini Mina e Celentano Adriano. Su Morandi Gianni già esistevano più aperture; chi superava l’esame a pieni voti erano Zanicchi Iva e Cinguetti Gigliola. Bocciati senz’altro gruppi e gruppetti, dai Beatles (ma ci si può chiamare scarafaggi?) all’Equipe 84 (cosa sono, gli anni dei quattro tutti assieme?).
Con mia madre e mio padre ricordo i sabati d’estate all’Arena Estiva Chiardiluna, ricostruita stagionalmente sul greto dell’Arno, in tempo perché alla fine di settembre potesse essere finalmente rigogliosa la vite americana che mascherava lo steccato esterno.
Prima delle piogge autunnali, come un gioco colossale, tutto era smontato per l’anno successivo.
Il Big Ben dell’Anno Domini 1966 disse stop.
Tempo dopo si dovette salire la Costa S.Giorgio per approdare all’Arena di Forte Bel Vedere: qualcuno doveva aver pensato che lassù si poteva finalmente essere al sicuro!
I gesti ricorrenti erano quelli di farmi fare i biglietti, di andare a scegliere i gelati, di mettermi il golf d’ordinanza: “che siamo sul fiume e c’è umidità e poi ti raffreddi dammi retta che vuoi fare sempre di testa tua che io ho più esperienza e so come vanno queste cose”.
Mia madre e mio padre stavano l’una nelle braccia dell’altro ed io ero finalmente in pace con me stesso ed il mondo.
Poi sono giunti gli anni dell’adolescenza e quelli delle passioni, ed io, come tanti, ho scavato una trincea tra me ed i miei, tanto più con mia madre che non esternava i suoi sentimenti e che, dunque, maggiormente m’inquietava. Era convinta che il mondo, le amicizie, la politica, la scuola inadatta mi stessero rovinando la vita e, conseguentemente, facessero franare anche la sua.
Quel periodo fatto di fughe di casa e d’abiti maleodoranti di lacrimogeni, d’apprensioni per il mio rincasare tardivo, quel periodo colmo d’incomprensioni continue, di freddezze reciproche, l’ho sentito ricordare da lei soltanto pochi anni fa, quando i miei figli avevano la mia età d’allora.
In effetti, non ho mai parlato a lungo con lei, non ho mai trovato argomenti che interessassero a lungo sia me sia lei e soltanto passati i miei cinquanta ed i suoi ottanta, ho capito che potevo anche stare semplicemente ad ascoltare, visto che questo procurandole piacere mi rendeva sereno. E lei, di converso, ha cominciato a capire quanto universo poteva racchiudersi in me e nelle mie idee, seppure a suo giudizio troppo pensate e coltivate nelle malinconie.
Forse domani cambieranno la serratura e queste mie visite diverranno impossibili.
Oggi, ancora, entro ed avverto immediatamente il nuovo silenzio.
Lo registro con la mente, prima ancora che l’udito me lo confermi.
Siedo sulla panchina del giardino e fisso le occhiaie vuote di tutti quegli appartamenti che una volta nascondevano vite e sentimenti conosciuti.
Fantasmi, oggi solamente fantasmi della memoria.
Tra le piante di questo giardino io sono cambiato, forse cresciuto.
Attraverso questo giardino, com’era e com’è, sono passate tutte le donne della mia vita: le zie e le vicine, le nonne e le mamme, le fidanzate e le mogli, le amanti e le amiche, le figlie e le fidanzate dei figli.
I caratteri, le parole, le abitudini, i volti di tutte quelle donne sono così ora disseminati qua e là nella memoria ed è bello ricordarle, facendole affacciare mentalmente da quelle finestre, facendole camminare sotto quei porticati, spiandole nei loro gesti quotidiani od osservando segretamente i loro imbarazzi o la complicità che traspare dai loro occhi.
L’Emilia.
Mia nonna veniva da S.Frediano. Dal quartiere delle baruffe e delle bestemmie, degli amori impossibili e del fuoco rivoluzionario e si portava dietro la convinzione di essere nata nell’ombelico del mondo, di essere stata generata al solo scopo di elevarsi socialmente, prendendosi tutte le rivincite che le erano dovute.
Nata impagliatrice di fiaschi, assurse al ruolo di cappellaia e questo fu tutto.
Fece un buon matrimonio, ma guerra e spagnola le furono contrarie. Generò due figli, divisi da dieci anni e da un sentimento materno poco equanime. Mio padre era il minore e per anni l’ho sentito, con garbo, rifiutare l’etichetta di figliolo di serie B.
All’indomani del matrimonio venne ad abitare in centro, lì generò e decenni dopo vi morì.
Ad essere giusti, in realtà, si spense in quel di Montedomini, casa di riposo tristemente famosa a Firenze alla fine degli anni sessanta.
Delle poche visite che le feci, nel breve periodo che vi trovò ricovero, ho ricordi francamente angosciosi, con lei oramai completamente cieca e parzialmente immobilizzata da un ictus, un povero essere umano, che nel suo anticipato buio fisico e morale, mi cercava con le mani protese, forse per sentire in me l’energia della gioventù, il calore di un affetto che lei riteneva pulito e sincero.
Io ero un ragazzo e per di più poco abituato a soffrire: fuggivo da quelle visite e m’ingegnavo a spegnere nel più breve tempo possibile i miei sensi di colpa. Poi sono stato l’unico che ha continuato a frequentare quella parte di cimitero dove si disfaceva la sua tomba, anche quando le fosse erano oramai divenute semplici tumuli di terra, riconoscibili soltanto per una targa o una croce affogate nel muschio.
Niente falsa spiritualità, soltanto un contatto con la terra bagnata o arsa, aspirando l’odore della borracina o delle coccole di cipresso.
Un ricomporre immagini, la mente stimolata dai sensi.
L’ho fatto poi più volte in camposanti e giardini, in case amiche o sconosciute.
Per me la madre di mio padre ha sempre rappresentato il bel tempo che fu.
Bello forse però soltanto perché lontano, affascinante unicamente perché vissuto con la mente sgombra di bimbo, attraente unicamente perché collegato al sogno di poter viaggiare nel passato, alla conquista di quello che non potemmo cogliere.
Lei si dedicava alla casa, badava a me, organizzava la vita di tutti noi, cercando di rimanerne però al di fuori. Grazie a lei mio padre e mia madre conobbero i film neorealisti ed i musei della loro città, mentre io, nella calura estiva, vidi e vissi le scogliere di Antignano, arse dal sole ed aulenti di tamerici.
La nostra era esistenza comune a migliaia di famiglie operaie.
I ritmi quelli del quartiere, scanditi da abitudini tramandateci.
L’Emilia era già quasi cieca, quando l’Arno sfondò il portone del giardino e si arrampicò sino all’ultima rampa delle nostre scale, battendo il record di salto in alto con ben 460 centimetri.
La sua camera, dovendo far posto agli sfollati, divenne per un periodo anche la mia. L’accudivo per quel che potevo, ma poi cercavo di far entrare di soppiatto le ragazze fidando nel suo handicap.
Ci siamo voluti bene e ci siamo parlati, forse molto di più di quello che fanno oggi nipoti e nonni.
Mi raccontava delle lotte per le otto ore, della fatica quotidiana e della solidarietà tra lavoratori, di cosa significava vivere del lavoro a giornata, con la speranza obbligatoriamente alimentata dal niente del quotidiano e con la rabbia per una giustizia che appariva fola per ragazzi.
Mi diceva degli amori e delle disgrazie, quelle degli altri e quelle sue, come quella sera che durante il lavoro, protrattosi troppo a lungo, un fiasco le si ruppe in mano, lasciandole il tendine definitivamente danneggiato e allontanandola così dal lavoro per settimane, settimane in cui si dovette stringere ancor più la cinghia. Ma mi parlava anche del passeggio della domenica in piazza della Signoria e sotto gli Uffizi, della cioccolata calda da Revoire, un lusso che aspettava l’intera settimana.
E poi le passeggiate alle Cascine, che a Maggio propiziarono la canzone rimasta nei nostri ricordi.
Con mia madre era sempre un po’ altezzosa, quasi avendo paura di dover abdicare al suo potere domestico. E mia madre credo che sotto sotto fosse felice di questo ruolo di secondo piano, potendo così dedicarsi al lavoro, a me e soprattutto alla cura della sua persona, alla quale, giustamente, ha sempre tenuto.
Della nonna mi restano i modi di dire, il senso ed il gusto della fiorentinità e la scoperta della Viola, di cui suo figlio maggiore era tifoso sfegatato.
Le ciane.
L’Emilia aveva circa l’età delle altre inquiline del nostro originale condominio.
Tra loro c’era chi amava i gatti e chi si perdeva nelle note di un pezzo classico che arrivavano flebili dalle cuffie di una radio a galena. E chi continuava la pratica dell’orto di guerra, usando a mo’ di vasi le pentole di porcellana o d’alluminio oramai non più utilizzabili. Una babele di forme e di colori che creava un affascinante, selvatico caos.
Ma c’era anche chi filtrava la mala vita quotidiana attraverso la consolazione della lettura della Bibbia, che da noi, uscio e bottega con la chiesa protestante, era pratica auspicabile e diffusa.
Nomi di un altro tempo: la signorina Silvia, la signorina Palmira, la signora Zaira, la zia Armida, tutte attempate e pie donne oltre i sessanta anni.
Il mio giocare a pallone era inframmezzato dai loro richiami e dalle loro proteste, dai loro inviti e dalle loro minacce.
Quando cominciai quotidianamente a scappare in bicicletta verso le Cascine tirarono tutte un sospiro di sollievo.
Mia Zia
Di mia zia che viveva al piano terreno in un appartamento ricavato dalla chiusura delle arcate poste a sinistra del chiostro, ricordo il carattere autoritario e chiuso, l’educazione ferrea impartita a mio cugino, l’apparente impossibilità a sciogliersi in un sorriso o in un abbraccio. Ma ricordo anche il profumo dei meravigliosi dolci sfornati dalla sua cucina economica, che spesso rallegravano nuvolosi pomeriggi o interminabili giornate estive e le volte che mi concedeva di accompagnarla lungo le rive dell’Africo, dove, inebriato dal profumo della fabbrica dei biscotti, rimanevo incantato a guardare i grandi cesti di vimini stracolmi di frolle. La zia non ha mai avuto un buon rapporto con la nonna Emilia; forse gravava su quest’antipatia la gelosia di una moglie verso una suocera troppo amata dal figlio.
Comunque sia, la fortuna di una nuova casa, dopo il dolore della perdita inflitta dall’alluvione, la rese a tutti noi più lontana e gli affetti furono smorzati dalla distanza topografica.
Anni di coinvolgente abitare comune scolorirono rapidamente e la morte prematura di mio zio certo non migliorò le cose.
Quindici anni di rapporti svanirono così in pochi mesi.
Ancor oggi ho un consanguineo che non sento e non conosco, una persona che ha condiviso con me anni di crescita, di segreti e d’affetti: un cugino scomparso in vita, un desaparecido sentimentale.
Gemma
Ora qui seduto su questa panchina, mentre il sole è catturato dalla torre del Bargello, continuo a rivivere la vita di quel tempo e ricordo così la ritrosia di mia madre, la sua difficoltà a stare “a chiacchiera” con la piccola comunità di Via della Vigna.
In lei prevaleva il carattere schivo, la ritrosia ad occuparsi delle piccole cose d’ogni dì, trionfava, invece, la sua difficoltà a stabilire saldi e franchi rapporti umani.
Di questo s’intristiva mio padre, che, invece, socializzava con tutti.
Ma, ciò nonostante, il loro è stato un rapporto grandemente rispettoso delle singole personalità, un elemento, questo, indispensabile per il mantenimento dell’amore in una coppia e, credo, componente essenziale per la sua crescita e la sua stabilizzazione.
Ricordo una fotografia, nella sua semplicità molto bella, di loro ancora fidanzati, colti mentre passeggiano sui Lungarni: come molti loro coetanei sembrano essere usciti da una cartolina commemorativa del giorno della liberazione di Parigi. L’una sottobraccio all’altro, camminano spediti, magri e belli nella loro gioia per una vita che appariva, finalmente, dal futuro sereno. Mio padre con gli occhialini da intellettuale ereditati dal campo di prigionia in Inghilterra, i baffetti alla moda ed un doppiopetto anteguerra sin troppo ampio; lei occhi ridenti, un velo di rossetto sulle labbra, il sorriso aperto e coinvolgente, le gambe snelle e nervose.
Altre immagini seguono nella memoria, quelle fotografiche del loro matrimonio e quelle delle feste al Casinò Borghese, dove mia madre in uno splendido abito preso a noleggio, sembra appartenere alla corte di Versailles, ma nessuna, nessuna come quell’immagine scattata per caso sotto un nuovo sole “liberato”, parla così palesemente di speranze e di voglia di fare, del desiderio di dimenticare e ricominciare da capo una vita diversa.
E, naturalmente, anche della voglia di generare nuova vita a cui cercare di dare tanto, tutto quello, come ci hanno ripetuto per anni i genitori di quella generazione, che loro non avevano potuto avere.
Nessuno di loro, nessuno della loro generazione, si sarebbe mai aspettato poi lo sconvolgimento della fine degli anni sessanta: la contrapposizione con i figli, le incomprensioni, la domanda assillante che si sarebbero posta per anni: dov’è che abbiamo sbagliato? Si scoprirà poi che non loro, ma noi avevamo smisuratamente errato, preda dell’insaziabile voglia di felicità a basso costo.
Noi che abbiamo straparlato di nuovi ideali, di nuove e più perfette giustizie, non soltanto siamo divenuti, com’era nella logica delle cose, i migliori difensori dell’esistente, ma non siamo neppure riusciti a trasmettere le basi minime dell’etica ai nostri figli, a tramandare un qualsiasi motivo per proseguire sulla strada che sin troppo facilmente noi avevamo abbandonata. Il risultato è stato generare ed allevare nuovi uomini e nuove donne senza punti di riferimento: non le nostre sofferenze da cancellare, non i nostri ideali da perseguire, non la voglia di conquistare qualcosa che non sia semplicemente in vendita, non le aspettative per un mondo nuovo, che, anzi, mostra già i bagliori del suo crepuscolo.
Probabilmente non potevamo fare di meglio, ma certo è che nonostante le loro idee “antiquate”, i loro divieti apparentemente insensati, i loro traguardi da raggiungere, la felicità per le loro seicento nuove, per le loro tavole di formica, per l’orgoglio smisurato di avere dei figli che si diplomavano o si laureavano, i nostri genitori hanno fatto ben migliore figura di noi, figli dell’incomunicabilità delle pance piene.
Mia madre era nata da stirpe sannita e di quegli antichi aveva mantenuto sempre il carattere e la forza interiore. La sua è stata storia di lavoro e d’accettazione, ma anche d’emancipazione ed indipendenza.
Se gli è mancato qualcosa è stata unicamente l’impotenza a combattere la battaglia dei sentimenti, la forza di misurarsi nella lotta quotidiana per capire a fondo coloro che gli erano vicini negli affetti e che, a volte, chiedevano a lei aiuto ed indirizzo senza trovarli.
Mia madre avrebbe avuto bisogno di una sorta di manuale Cencelli dell’amore, che le dicesse, per filo e per segno, cosa fare e cosa dire, quanto chiedere e quanto concedere.
Così è stato verso mio padre, così è stato verso di me.
Quando nasce sui monti dell’Appennino meridionale, è già un po’ diversa dalle sue coetanee: i genitori sono medi possidenti agrari e lei va a scuola evitando il lavoro dei campi.
Può frequentare sino alla seconda classe delle medie superiori, nella speranza di approdare all’insegnamento, ma trova posto al Monopolio Tabacchi ed il primo stipendio che lo Stato le dà è cosa troppo importante per essere gettata al vento. Specialmente per una famiglia dove il padre è già grande invalido di guerra e dove lei è la maggiore di quattro figli.
Lavorare a diciassette anni la rende consapevole della limitatezza della vita di paese, della noia di una promessa di matrimonio confezionata su misura, dell’asfissia provocata da un ambiente che oramai aveva perso anche il fascino del decaduto regime, sprofondando tutti nella lotta per la sopravvivenza.
Naufragati i fasti dell’Impero, nuove paure e dolori erano giunti con l’arrivo delle truppe di colore mandate allo sbaraglio dall’esercito alleato.
Il passaggio del fronte distrusse in poco tempo sia le vecchie certezze sia le nuove speranze. L’inflazione, nel frattempo, aveva mangiato rendite e risparmi, suo padre era morto ed i fratelli erano stati mandati in collegio a Firenze.
Gli studi erano oramai stati interrotti e sembrava doveroso seguire i fratelli più piccoli nella nuova città. Il destino non permise il suo trasferimento al Monopolio e lei fu retrocessa al ruolo di atta a casa.
Di lì ad un anno iniziarono i ritorni: migliaia di ex prigionieri tornavano ad abitudini quasi dimenticate dopo più di un lustro di lontananza.
E fu così che un reduce fra i tanti, incrociò la sua vita con una delle tanti sfollate.
Per mio padre fu un colpo di fulmine, per mia madre la scoperta di una persona diversa, l’opportunità di vivere una vita dignitosa accanto ad un uomo che la considerasse e l’apprezzasse per le sue capacità.
L’amore a volte si costruisce giorno per giorno e questo fu il suo caso.
La loro speranza e la loro buona volontà mi catapultarono in questa vita ad allungare il brodo di un DNA sempre più raro nella nostra casata.
Di me piccolo e di lei giovane ricordo i viaggi giornalieri al Mare dell’Anconella, ovvero le rive sabbiose di un Arno che ancora allora il poeta poteva definire d’argento senza tema di smentita. Là, come in Versilia, ci accoglievano ombrelloni e sdraio, risa, secchielli e salti dal trampolino, dove i giovani dell’epoca, oggi attempati pensionati, facevano mostra di coraggio e sguaiatezza.
Era una mamma che lavorava e che dunque era presente a tempo.
Ancor di più era impegnato mio padre, che la vedeva spesso soltanto la sera e che con lei scambiava poche parole, vuoi per la stanchezza che pesava su entrambi, vuoi per una certa tensione spesso presente, fatta di piccole insoddisfazioni e di sogni mancati.
In sottofondo la nostra radio che trasmetteva le notizie o le canzoni di Villa o quelle dei nuovi urlatori, cantanti ai quali mio zio prediceva vita breve; due su tutti: tale Mazzini Mina e Celentano Adriano. Su Morandi Gianni già esistevano più aperture; chi superava l’esame a pieni voti erano Zanicchi Iva e Cinguetti Gigliola. Bocciati senz’altro gruppi e gruppetti, dai Beatles (ma ci si può chiamare scarafaggi?) all’Equipe 84 (cosa sono, gli anni dei quattro tutti assieme?).
Con mia madre e mio padre ricordo i sabati d’estate all’Arena Estiva Chiardiluna, ricostruita stagionalmente sul greto dell’Arno, in tempo perché alla fine di settembre potesse essere finalmente rigogliosa la vite americana che mascherava lo steccato esterno.
Prima delle piogge autunnali, come un gioco colossale, tutto era smontato per l’anno successivo.
Il Big Ben dell’Anno Domini 1966 disse stop.
Tempo dopo si dovette salire la Costa S.Giorgio per approdare all’Arena di Forte Bel Vedere: qualcuno doveva aver pensato che lassù si poteva finalmente essere al sicuro!
I gesti ricorrenti erano quelli di farmi fare i biglietti, di andare a scegliere i gelati, di mettermi il golf d’ordinanza: “che siamo sul fiume e c’è umidità e poi ti raffreddi dammi retta che vuoi fare sempre di testa tua che io ho più esperienza e so come vanno queste cose”.
Mia madre e mio padre stavano l’una nelle braccia dell’altro ed io ero finalmente in pace con me stesso ed il mondo.
Poi sono giunti gli anni dell’adolescenza e quelli delle passioni, ed io, come tanti, ho scavato una trincea tra me ed i miei, tanto più con mia madre che non esternava i suoi sentimenti e che, dunque, maggiormente m’inquietava. Era convinta che il mondo, le amicizie, la politica, la scuola inadatta mi stessero rovinando la vita e, conseguentemente, facessero franare anche la sua.
Quel periodo fatto di fughe di casa e d’abiti maleodoranti di lacrimogeni, d’apprensioni per il mio rincasare tardivo, quel periodo colmo d’incomprensioni continue, di freddezze reciproche, l’ho sentito ricordare da lei soltanto pochi anni fa, quando i miei figli avevano la mia età d’allora.
In effetti, non ho mai parlato a lungo con lei, non ho mai trovato argomenti che interessassero a lungo sia me sia lei e soltanto passati i miei cinquanta ed i suoi ottanta, ho capito che potevo anche stare semplicemente ad ascoltare, visto che questo procurandole piacere mi rendeva sereno. E lei, di converso, ha cominciato a capire quanto universo poteva racchiudersi in me e nelle mie idee, seppure a suo giudizio troppo pensate e coltivate nelle malinconie.
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