Autoanalisi

Ricordare per poter comunicare.Quello che abbiamo vissuto senza pentimenti e capriole, nè in politica, nè in privato. Molto amore, molta passione ed una spruzzata di fortuna, per noi che avevamo vent'anni in quegli anni.

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sabato 31 marzo 2007

Felicità

La nostra felicità non dipende soltanto dalle gioie attuali,
ma anche dalle nostre speranze e dai nostri ricordi.
Il presente si arricchisce del passato e del futuro.
Émilie du Châtelet

Nella moderna società industrializzata, capitalistica e monoteistica, è dato per scontato che i momenti di felicità siano elementi di discontinuità nella vita dell’uomo. Che rappresentino, insomma, parentesi secondarie rispetto ad una vita che rimane ancorata alla filosofia stessa dell’insoddisfazione.
La necessità di stimolare l’individuo a consumare merce da una parte e l’esigenza di renderlo dipendente dai sensi di colpa dall’altra, sono così i pilastri sui quali, da secoli, si è pianificata la programmazione culturale dell’individuo.
E’ vero invece l’opposto.
La serenità, la felicità e la gioia, elementi organicamente fusi, sono continuamente presenti in noi stessi e nella nostra esperienza quotidiana e procedono parallelamente al trascorrere del nostro tempo vivente. A noi starebbe il riconoscerli, allineandoli senza soluzione di continuità su un percorso unitario, che dovrebbe rendere tutta la nostra vita serena, comunicativa, estroversa.
Il “momento felicità” è quell’attimo d’illimitata espansione in cui il nostro sentire entra in una dimensione d’armonia complessiva ed in cui il tempo è annullato, cosicché i nostri bisogni sono aboliti. Ma questo “attimo”, che noi avvertiamo come circoscritto, è limitato nel tempo soltanto rispetto alla sua discontinuità con il nostro vivere quotidiano, mentre diviene elemento indispensabile dell’insieme se lo colleghiamo, in maniera armonica, con i precedenti o i successivi “attimi”, tutti figli di un unico procedere unitario.
Facciamo un paio d’esempi: due amiche fanno della loro amicizia condivisa l’elemento portante del loro vivere in serenità; quando l’una va a trovare l’altra incinta, ne trae momenti di felicità, condividendo intellettualmente il suo stato ed istanti di gioia quando posando la mano sul ventre dell’amica avverte il movimento del nascituro.
Od anche: immaginiamo la nostra vita serena come il procedere di un torrente di montagna, saldo e sicuro nel suo alveo; a tratti si formano naturalmente delle pozze, dei piccoli bacini dove l’acqua tra l’ingresso e l’uscita appare apparentemente ferma, quelli sono i nostri momenti di felicità, apparentemente sempre uguali a se stessi, ma, contemporaneamente, costante e mutevole trasformazione della nostra serenità, attimi di pace che si creano e si disperdono, pur comunque provenendo da eguale fonte; il momentaneo raggio di sole che illumina quella superficie al transito di una nuvola, sarà il nostro istante di gioia.
Il sentimento caratteristico della felicità è dunque quello della compenetrazione con il tutto. Questo assorbimento, questi piccoli frammenti di felicità che irrompono in noi, invadono pure (o così dovrebbe essere) ogni momento della nostra esistenza, rendendocela cara. Accettato questo, possiamo comprendere anche come allora il tempo fluisca in modo uniforme, così da non permettere la percezione del suo continuo spezzarsi.
Ecco perché in tal modo gli attimi di felicità possono essere vissuti per se stessi e non avvertiti per la loro assenza, cosicché il tempo, psicologicamente, si allarga.
Esso, infatti, in questo senso è continuo, in lui non c'è elemento di rottura. Ogni singolo momento di felicità diviene sostegno e stimolo ad un più ampio piano, che prevede la serenità del nostro vivere.
Ripeto, soltanto se i singoli momenti di felicità vanno a far parte di questo disegno d'insieme potremo ottenere la possibilità di viverli come conquista e non come privazione.
Infatti, quando quei momenti, vissuti come sentimento illimitato della propria espansione personale, terminano, ci chiediamo: perché sono stato felice? Perché adesso lo sono di meno? Soltanto a quel punto, c’interroghiamo sulle condizioni in cui li abbiamo vissuti, nella speranza di potere rinnovare i requisiti per tornare in quest’espansione che si è sperimentata.
Ma pensare a tecniche “di conquista” è del tutto sbagliato se non si accetta di guardare il mondo non attraverso quei momentanei squarci di luce, ma attraverso la visualizzazione di un percorso di consapevolezza, che ci cali in una dimensione in cui la felicità e la serenità rappresentino elementi di normalità.
La questione appare difficile o, al meglio, non poco ingarbugliata.
Questo perché ci hanno abituato a sopportare le negatività della vita, ma non ci hanno insegnato a fare nostre le molteplici positività che la vita ci propone ogni giorno.
Un uomo o una donna felici, sereni, in pace con se stessi e con il mondo, sono elemento di profonda eversione per un mondo che vive di ricatti e d’apparenze, di minacce e di promesse non mantenute. Realizzarsi in questa vita attraverso l’effimero continuo consumo, fa coppia con la promessa di un’alternativa ultraterrena tanto mirabile quanto impalpabile.
E’ evidente che il percorso che porta ad una vita serena può essere influenzato negativamente o positivamente da molti fattori.
Innanzi tutto la salute nostra o dei nostri cari, una sana relazione di coppia o l’accettazione cosciente del vivere soli, un clima sociale che ci veda consapevoli e non al traino degli altrui interessi, ma anche rapporti responsabili verso i figli, un livello adeguato d’autostima, la capacità di mantenere la propria dignità tenendo saldi i propri principi etici.
Una vita serena è quell’insieme positivo che contiene tutti questi parametri, ma anche qualche cosa di più, un qualcosa che parte dal nostro interno è che rappresenta la sintesi inconscia delle esperienze del nostro passato e delle aspirazioni per il nostro futuro.
La ricetta per una felicità sicura esiste nella stessa misura di quella per una ricrescita folta dei capelli.
Ciò nonostante alcune piccole regole esistono, talmente banali che pochi le applicano.
Innanzi tutto basse attese, suggerimento ovvio, ma del tutto inapplicato in un mondo che vive esclusivamente d’attese le più alte possibili, create a bella posta per surrogare la realtà, difficile da accettare e da far accettare.
Ad attese reali con cui concretamente confrontarsi, andrebbe accoppiato un vero e proprio piano di vita. Un progetto che ci travalichi, che ci dia quel respiro universale che la nostra condizione odierna non ammette.
Pianificato questo –terza ed ultima regola d’oro- dovremmo lavorare ogni giorno in una politica dei piccoli passi, mantenendo costante la nostra fiducia in quello che facciamo, anche se, apparentemente, non ottiene risultato immediato e tangibile. Il progetto di vita, se in tal senso vissuto, può essere di tipo sociale o può toccare l’ambito della fede, sia questa “laica” o religiosa.
Tutti questi piani di lavoro divengono validi soltanto nella misura in cui la nostra partecipazione sia reale e costante nel tempo, cioè se noi, in quell’idea, confidiamo non soltanto come prospettiva per le generazioni a venire, ma anche come scuola di pensiero e d’azione per l’oggi. Condizione che ci permetterà altresì di rendere fattiva la nostra proiezione oltre il termine naturale della vita.
Per rimanere al sociale (al politico si diceva una volta, prima che la Politica fosse emarginata e la sottocultura politichese macchiasse tutto), è chiaro che se nella società esistono, com’esistono, dei nodi di miseria, di sofferenza, se perdurano condizioni che portano all'emarginazione culturale, la dimensione di un piano di comunità che allievi prima ed elimini poi, tali difficoltà, non può che far lievitare la felicità, nostra e di chi, con noi, condivide tali progetti.
Questo possedere in comune è incontro e non uso dell’altro ed è prolifico proprio perché elimina la possibilità del gettare via l’altro, condizione che avviene sempre quando, invece, non siamo disponibili ad arricchirci crescendo insieme.
Insomma, per restare alla storia della cultura, l’utopia della felicità è sempre esistita anche prima della rivoluzione marxista; riuscire ad eliminare dal mondo il dolore inflitto, cioè il dolore che gli uomini s’infliggono gli uni agli altri, ha provocato il bisogno della rivoluzione, il sovvertimento dello status, cercando di introdurre il concetto, filosofico prima e politico poi, del bisogno, per la specie, di una serie di regole di giustizia, necessità indispensabile per la sua stessa esistenza (a proposito a quando la fine dell’antropocene?).
Esiste, però, un tipo di dolore, nella vita, che, pur ammettendo di riuscire ad arrivare ad una situazione come quella concepita ed augurata dalle aspirazioni politiche, non si potrà mai eliminare; ed è il dolore naturale, la morte.
Rispetto a questo verrebbe da pensare che il concetto stesso di felicità sia negato.
Ma la felicità non è, come abbiamo detto, un elemento statico, ma è ricerca della conquista, della vittoria, dell’acquisizione, dell’accoglimento. In questo senso la maturazione provocata dal dolore genera felicità essa stessa, rompendo lo schema on-out, muta, trasforma, sostituisce al dolore ed alla privazione, la coscienza del nostro divenire storico, che travalica i limiti angusti del nostro vivere a tempo.
Noi utilizzeremo allora il Progetto per la nostra felicità, ma, contemporaneamente quello c’impiegherà come strumenti della propria realizzazione.
In questo sta il segreto ultimo della felicità: riuscire a far conchiudere il cerchio della vita, collegando, con senso logico, la nostra nascita alla nostra morte e viceversa. Riversando sui nostri figli (nostri in senso lato, appartenenti all’umanità tutta) le nostre certezze e le nostre speranze, le nostre esperienze e le nostre aspettative.

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lunedì 17 aprile 2006

Ucci,ucci..sento odor..

Quando vado (o se volete, quando ritorno) a Firenze, faccio più o meno sempre le stesse strade e se non viaggio con il “pilota automatico”, cerco di rivedere i miei luoghi e di rinnovare le mie abitudini. Per questo l’altro giorno ho dovuto subire un colpo basso. Non è il primo, non sarà l’ultimo. Passo da Piazza Davanzati ed il bar dei miei vent’anni non c’è più.
Talmente non volevo crederci che ho continuato a passarci davanti una, due, tre volte. Ed invece era vero: il bar è sparito, anzi peggio, è stato trasformato in un ristorante per turisti.
Si badi bene, non ho niente contro i ristoranti e neppure niente contro i fast food o le paninerie o contro tutte queste spizzicherie che stanno nascendo e morendo da un giorno all’altro.
Mi brucia soltanto che questa città mutante si stia fagocitando a poco a poco tutti i miei ricordi. Sentimento per niente originale, penserete voi, ma vi assicuro che al di là delle apparenze, è un’emozione condivisa da sempre meno persone. Qualcuno, su questa lieve sofferenza, ha cercato, per altro spesso, di specularci, volendo creare intorno al nostro ieri, malinconiche ideologie, o, peggio, una sorta d’ideologia della malinconia. Insomma più d’uno hanno cercato di far passare i nostri anni settanta come il periodo topico degli “slanci e delle intuizioni” o, addirittura, come gli anni dell’utopia della giovinezza. Così, in realtà, non è stato, anche se quel periodo è stato veramente unico e, in ogni caso, siamo qui a parlare tra pochi intimi e l’argomento, affrontato a fondo, rischierebbe di divenire pesante, dunque credo sia giusto limitarsi a rivendicare unicamente il diritto al ricordo della mia piccola storia personale.
In effetti, nelle note precedenti (e forse qualcuno l’avrà notato) ho cercato di dare un senso logico agli accadimenti utilizzando i sentimenti che, quelli, suscitavano in me e negli altri. Il tentativo, più o meno manifesto, era però quello di affrontare le questioni dandogli un taglio generale.
Il risultato rimane incerto, perché tante di quelle esperienze non possono certo essere travasate nel pentolone comune senza un approfondimento serio che, forse, a volte, è mancato.
In questa nota vorrei invece essere libero di ricordare soltanto per il gusto di farlo, senza cercare interpretazioni o giustificazioni. E’ evidente che se sinora l’universalità del ragionamento non è riuscita a guadagnare la superficie del mio discorrere, tanto meno lo potrà adesso che il mio argomentare guarderà ancor più all’interno.
Insomma, tagliando corto, se sino ad adesso non ci avete capito molto, saltate pure a piè pari questa nota, a meno ché non siate rosi dalla curiosità voyeuristica di saperne di più della vita degli altri.


Tra settantatré giorni avrò cinque anni. Di questo ancora non mi rendo conto e l’unica preoccupazione è, al momento, che sono stato svegliato dalla nonna e che ho ancora troppo sonno. Il babbo e la mamma, al solito, sono già usciti ed io inizio una nuova giornata.
La nonna Emilia, appena si accorge che la posso ascoltare senza ripiombare nel sonno, mi dice: “Sandrino tira via, alzati su che si va a fare colazione”.
Alzo la testa e guardo i soldatini che avevo lasciato sul comodino. Sono ancora lì ed è uno stimolo in più per alzarsi e magari iniziare a giocare.
Esco dal lettino ed il freddo mi assale pungente; siamo in inverno ed il riscaldamento è limitato alla stufa a kerosene posta nell’ingresso. Dovrei vestirmi, ma mi faccio mettere il grembiulino sul pigiamino pesante; poi, purtroppo, dovrò lavarmi: un’impresa quotidiana!
Vado in cucina, la nonna ha già messo il latte a scaldare, che poi scaldare è un modo di dire, perché quando si ricorda di toglierlo dal fuoco è sempre bollente ed io sono costretto ad aspettare e soffiare…soffiare.
“Nonna, vieni a metterlo nella tazza? Nonna? Mi senti?” Deve essere in bagno, insomma in quel corridoio con in fondo il gabinetto, dove ho sempre paura ad arrivare, quando la luce è spenta.
“Nonna lo levo dal fuoco da solo? Spengo il gas sotto il latte?” Sento soltanto dei borbottii in lontananza. E’ che la nonna non ci vede tanto bene, ma anche ad udito non è poi che brilli.
Ho deciso, faccio da me, tanto arrivo quasi ai fornelli.
Qui il tempo rallenta, come tutte le volte che sta per accadere qualcosa.
Avvicino la mano al manico del tegamino. Non penso che potrei scottarmi e dunque lo stringo con forza. Brucia, brucia e sembra essersi saldato alla mia mano, alla mia manino di bimbo incosciente. La reazione istintiva è ritrarre la mano, ma il bricco del latte criminalmente la segue ed il latte, come una cascata in miniatura, inizia a rovesciarsi su di me ed è, ovviamente, bollente. Riesco a portare indietro la faccia e gran parte del corpo, ma il braccio è investito in pieno dal liquido. Il dolore è lancinante, forse il dolore più forte che poi abbia mai avvertito nella vita se togliamo le coliche renali. Inizio ad urlare, urlo con quanto fiato ho in gola, mentre il terrore mi avvolge e stimola immediatamente il pianto. La nonna è arrivata di corsa; io non mi accorgo di niente, confuso da questa bestia che mi morde il braccio. L’Emilia mi strappa grembiulino e pigiama e mi mette sotto l’acqua fredda. Urlo, urlo e piango e la nonna è come impazzita: sbatte qua e là come una falena ed urla anche lei.
Poi buio. Blakout dei ricordi.
Dei giorni appresso (quanti?), rimangono soltanto ricordi sbrindellati, ricordi vaghi di un braccio fasciato e curato dal vecchio dottore di famiglia. Ricordi di urla e pianti e giochi e caramelle per alleviarli. E poi, tanto tempo dopo, questa cicatrice, oggi poco più grande di due euro, allora grande quasi quanto l’intero mio avambraccio.
Ancora non lo potevo neppure immaginare, ma quell’episodio era stato il primo nodo della vita che si era stretto e che di li a poco avrebbe iniziato a farmi abbracciare quella che diverrà la mia filosofia di vita. Così da anni oramai ogni mattino, ad ogni risveglio, mi rendo conto di quanto sono fortunato perché non soffro e perché non soffre chi mi è caro. Le rabbie, i nervosismi, le irritazioni ed i risentimenti di cui si ciba la gran parte dei miei coetanei, mi sono quasi del tutto estranei. E sottolineo quasi, perché sono umano anch’io e sono anche sufficientemente ragionevole per pensare che non tutto, sempre, può girare nel verso giusto. A volte, però, per vivere meglio, basta provare a guardare il mondo cercando di vederlo e pensare che, tutto sommato, poteva andare molto, ma molto peggio.


Quattro anni d’estate al mare, quattro anni di scogliere affascinanti ma faticose, quattro anni di scarpinate sotto il sole cocente con il solo profumo delle tamerici ad alleviare il senso di stanchezza. Lo so che la mamma ed il babbo lavorano per potermi mandare qua, a questo benedetto mare, ma non è che poi tutto questo sforzo sia così grandemente apprezzato.
“E il pesce che ti fa bene e lo iodio che ti fa respirare meglio ed un po’ di sole che sei sempre bianchiccio”, insomma tutta la classica tiritera per giustificare questo mio stare lontano dagli amici e magari farmi sentire anche un po’ in colpa.
Cosa per altro difficile nel mio caso.
Ogni anno si ripropone così l’immagine della nonna che mi accudisce prendendo il sole con il costume intero o con le gonne pudicamente alzate sulle gambe, il profumo (e le lische) del cacciucco della signora Amina, che come lo fa lei non lo fa nessuno e le salite, faticose, sofferte, al ristorante di conoscenti, su in costa. Ogni benedetto anno compagni di giochi da reiventare e la tortura della temuta “ciambella”, salvavita più che altro psicologico per me che ancora non so nuotare, mentre qui, maledizione, sembrano tutti dei De Biasi.
In questi anni sovente non mi piaccio e spesso ho il broncio, molte volte non mi diverto e sono noioso. La nonna vive per me, per le mie richieste, per i miei bisogni e per i miei capricci, che sono pochi, ma sentiti.
Quest’anno, però, c’è qualcosa di diverso.
Tra poco arrivano Gianni e Gianna e seppure la cosa mi metta in apprensione, è comunque un dolce pensiero. Il mio amico e la mia amica. Sui sentimenti per lui non ho dubbi, su quelli rivolti a lei qualche interrogativo incombe. Perché a nove anni le idee sono spesso confuse, anche se questa agitazione alla bocca dello stomaco sa veramente molto di cotta infantile. Che poi, detto fra noi, cotta nel mio caso è un eufemismo, perché la sbandata va avanti da anni.
Così quando arrivano tutti e tre somigliamo a dei cuccioli che si annusano e ritrovano gli odori familiari, che per noi sono i giochi, le parole, i comuni sentimenti.
Molto tempo dopo, capirò che questa è l’amicizia di una vita, quella che se c’è, c’è, altrimenti non s’inventa e che, salvo incidenti sentimentali, ti accompagna fino alla fine.
I miei sono felici della mia serenità e ci fanno le fotografie: io, sempre un po’ imbronciato, galleggio come una boa da segnalazione incastrato nella mia ciambella, oppure faccio finta di niente, cercando di darmi un improbabile contegno seduto accanto a loro, consumandomi però lo stomaco e l’anima per non essere in grado di esprimere pienamente i miei sentimenti.
Loro, invece, sorridono, belli e disinvolti. Io li guardo e nutro dentro di me la speranza che siano in ogni caso coinvolti in questa comune recita della vita.
Ora capirete che se lo speravo allora, quando ancora non conoscevo niente della vita, non posso che, a maggior ragione, sperarlo oggi.



Torri, torri dell’anima e torri di guerra. Torri scalate alla ricerca di una nuova serenità o di un amore da fare proprio. Desiderio (e delirio) di superare i limiti, aspirazione ad un vivere diverso. Queste sono le mie torri, le torri che mi hanno accompagnato e che, ancor oggi, mi fanno compagnia.
Si sa, la verticalità del vivere era, ed è, aspirazione umana. Chi, infatti, non vuole osare come Icaro, sovrapporrà una pietra all’altra, uno strato di cemento armato all’altro, un’aerea volumetria vetrata all’altra per cercare di arrivare al cielo, così da poter guardare e farsi guardare.
Chi non può costruire o abitare quello sforzo di volontà, non può che cercare di viverlo spacciandosi per visitatore, un turista-bambino che nasconde la maturità (e l’azzardo) dei suoi sentimenti.
Dalla biblica Babele alla postmoderna Malesia, passando per Londra, Parigi o Firenze, le torri sono le specchio della nostra anima, la costante verifica della voglia di uscire dalla preistoria. Le torri fanno poi coppia fissa con i campanili, proprio come le trombe e le campane, ma qui vi risparmio la citazione.
Le mie torri (ed i miei campanili) sono, però, tutti italiani, come italiana è la mia limitata esperienza di viaggiatore. Questo non significa però ignorare. Eventualmente vuol dire conoscere soltanto con la mente, aver potuto vedere ed ascoltare, ma non aver potuto odorare, toccare, assaggiare.
Un prezzo alto certamente, ma d’altronde un prezzo da pagare c’è sempre.
E questo è uno di quelli che si possono sopportare.
Io bambino, ancora si saliva la torre d’Arnolfo, dominando Piazza Signoria e la terrazza degli Uffizi, mentre la torre del Bargello ed il campanile della Badia erano dinanzi a noi a volo d’uccello. Il campanile di Giotto non aveva ancora transenne antisuicidio ed il biglietto costava soltanto cinquanta lire, mentre la Cupola, senza essere torre e neppure campanile, ci forzava lo stesso a salite ripide e, nella parte più alta, pure un po’ claustrofobiche. Ma torri e fortilizi non mancavano anche appena fuori dal centro. Dalle porte d’ingresso alla città al Forte di Belvedere o, magari, alla torretta del Caffèhause di Boboli.
Poi, tempo dopo, potei salire le torri di Siena, di Lucca, di S.Giminiano, di Pistoia, quelle bellissime di Lucca e Serravalle o magari quelle d’avvistamento della costa o i fari delle città marinare.
Metafora della vita, le torri ci accompagnano costantemente nella ricerca di noi stessi, dei nostri limiti e della forza di volontà che serve per riuscire a forzarli, così da arrivare finalmente a soddisfare i nostri bisogni o i nostri sogni.
Certo è che sulle torri si sale per amore. Di una donna, dei propri figli o semplicemente dell’infinito che si fa desiderio e che, finalmente, viene posseduto dallo sguardo. Nell’armonia che dona l’altezza, tutto sembra più gestibile, più controllabile, meno misterioso e pericoloso. La realtà diviene soggettiva, lo spirito si libera: è il nostro Everest formato famiglia. Baciare una donna o spiegare i difficili argomenti della vita, assaporare il conforto del nostro annullarsi (lento lembo trasportato dal vento), quassù diviene semplice e possibile. L’assenza sopra di noi ci esalta e ci fa dire e fare quello che laggiù mai saremmo capaci di realizzare o sostenere.



Alcuni ricordano i loro sogni, altri li rimuovono, altri ancora darebbero chissà cosa per averne memoria.
Io ricordo.
Spesso.
Sarà che, purtroppo, sono facilitato dai tanti microrisvegli che mi hanno da sempre impedito il lusso di un sonno piombigno, privandomi di quei torpori che prendono repentini dopo i programmi di prima serata e che ti avvolgono strettamente sino al mattino. Figurarsi poi ora che inizio ad avere una certa età. Così tra un risveglio e l’altro ho iniziato ad imbastire trame, cucendo sogni a sogni, magari anche cercando d’influenzarli. Con scarso successo per altro. Ma questo esercizio mi rende più semplice rievocare. Molti di noi hanno, si sa, sogni ricorrenti ed anch’io non faccio eccezione. Alcuni di loro si sono evoluti nel tempo e poi si sono autodistrutti, altri proseguono con cadenza mensile.
E’ evidente che mi guarderò bene da interpretare o da cercare di capire.
La psicologia lasciamola pure agli esperti ed ai negromanti.

Il primo riguarda il mio giardino segreto, il secondo la casa che non c’è mai stata e mai ci sarà.
In realtà più che di giardino dovrei parlare di parco o di radura in mezzo al bosco, seppure bosco domestico. A volte è soltanto un parterre, ma, comunque, le fontane non mancano mai. E spesso, quasi sempre, in quelle vasche nuotano pigramente grossi pesci, forse carpe o addirittura pesci gatto. Chimerici animali acquatici che talvolta si fermano a guardarmi, per poi, disinteressati, riprendere i loro giri privi di logica. L’atmosfera è quella dell’abbandono totale, anche se i pesci viventi appaiono come una contraddizione stridente con l’immobile nulla che li circonda. Le piante ed il sottobosco, o il giardino incolto, emanano odore di muschi e tutto è permeato da un’umidità immobile. Gli alberi sono infiniti e spesso chiudono la volta impedendo alla luce di illuminare a pieno la scena. Il tutto sembrerebbe angoscioso, ma io sono tranquillo e rilassato, anzi sento quei segreti come mia essenza, come posto dell’anima. Cammino in un silenzio ovattato, niente canti d’uccelli o stormire di fronde, tutto è come congelato in una serie di immagini fotografiche. Colori dominanti: tutte le variabili del verde sino al nero, pochi marroni e grigi. Io mi addentro curioso, carezzo le piante, cerco di evitare gli ostacoli del sottobosco (o del giardino incolto), a volte procedo su vecchi lastricati coperti di licheni. Il punto di arrivo sono sempre le vasche. A volte circolari, a volte costruite come piccole grotte, come si possono ancora vedere a Boboli o salendo al Piazzale Michelangelo. E nascosti tra quelle alghe, sotto quelle acque cosparse di mucillaggini, nuotano quelli che, presumo, siano la raffigurazione dei miei dubbi. La mia presenza non li coinvolge, non li turba. A volte, quasi meccanici, si bloccano e mi guardano. So per certo che non metterei mai la mano dentro quelle acque che immagino fredde e, a maggior ragione, mai mi farei sfiorare da quelle creature, anche se sento che per loro la mia esistenza è superflua. Nuotano indolenti guardando al di là del loro mondo. Quello che mette in confusione è che lo fanno in maniera sin troppo antropomorfica, quasi fossero anime nane costrette all’interno di una pelle squamata, un vestitino grigio fumo di londra con una piccola cerniera nascosta sotto la pancia, pronta ad aprirsi ed a lasciar fuoriuscire vaporosamente il non-senso della vita.
Cammino e guardo, odoro, mi soffermo incuriosito contemplando la raffinata, delicata, complicata rete dei licheni, che seguono il ruscellare delle acque, per loro principio di vita e di riproduzione. Ma che ci faccio io qui? Questo, purtroppo (o per fortuna), non è dato sapere. Ma sta di fatto che qui non mi trovo affatto male, anche se, in verità, seppure lentamente, indolentemente, il freddo tende ad insinuarsi sotto le vesti aspirando (ora è chiaro) ad ibernarmi l’anima.
Ma sempre a questo punto, trovo il modo di svegliarmi (oppure il sogno è programmato per estinguersi). Questo forse perché dopo le domande, invariabilmente, devono sempre venire le risposte. Quelle che, spesso, per molti di noi è difficile trovare o accettare.
Meglio allora tornare ad una realtà normalmente incompresa.


La Casa Che Non C’è è spesso enorme come una cattedrale o smisurata come un opificio di fine ottocento. E’ comunque sempre malmessa, con centinaia di anni sulle spalle. Il numero delle stanze è stupefacente, anche se io, senza eccezione, mi occupo soltanto di alcune di loro. Entro e so che potrebbe essere la mia casa del domani e che dunque mi attendono enormi lavori di ristrutturazione, che nella mia ingenuità onirica, penso di poter portare a compimento da solo. Spesso ci sono porticati e giardini, sempre comunque scale e piani sopraelevati da raggiungere. I tetti sono completamente da restaurare e dai molti abbaini entrano ed escono frotte di piccioni. Il disordine e lo sporco regnano sovrani. Io percorro corridoi, salgo scalini, visiono impiantiti in mattoni da sostituire, prevedo tempi e modalità per le riparazioni. E’ evidente che si tratta di un sogno, nella realtà converrebbe far arrivare le ruspe e cominciare da zero, ma in quella dimensione tutto appare facile, di semplice realizzazione. E mentre percorro quelle stanze ed odoro l’aria pregna di muffe e polvere, ho sempre un flashback della mia casa precedente, un appartamento di una sola stanza, preso in affitto molti anni prima. Talmente sono convinto di questo stato di fatto, che, a volte, anche quando mi sveglio rimango stranamente persuaso di averla posseduta realmente o nel dormiveglia, pur anche di averla ancora. Fuori dalla casa (lo intravedo dalle grandi vetrate opache) serre abbandonate, sentieri cancellati dal tempo.

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mercoledì 8 febbraio 2006

Se la vita fosse un gambero..

Quello che mi ha complicato la vita sin dall’inizio, è stata la voglia di giovinezza di mio padre.
Più io m’intestardivo a voler essere meno ingenuo, più lui mi spiazzava con la concretezza della sua crescita da gambero.
Mio padre è poi morto a settantaquattro anni, ma sino all’ultimo è rimasto convinto di essere stato derubato, una seconda volta, di ciò che gli spettava: la sua ritrovata gioventù, adesso rapinata da un dio minore.
La prima volta ci aveva pensato il Domineddio vero, colui che aveva retto l’Italia per venti anni tra il tripudio delle genti, che lo aveva mandato, ragazzo tra i ragazzi, a combattere una guerra fortunatamente già persa.
Lui che ancora faceva i bagni in Arno, che si sudava il pane quotidiano nella bottega di carbonaio del nonno, lui che ancora non aveva assaporato il meglio della vita, si ritrovò catapultato su quel lembo di deserto africano che avrebbe significato l’inizio di una nuova vita.
Venti giorni dopo lo sbarco -lo stomaco ancora ballava- i blindati inglesi li avevano gettati contro un costone.
Sotto il mare schiumava.
Il Capo Manipolo li voleva avanti, all’attacco all’arma bianca, a difendere l’onore dell’Impero, a morire da italiani. Urlava di morire da fascisti come sino allora avevano vissuto.
Berci più tristi che stupidi.
Due coscritti avevano gettato immediatamente a terra il “91”, il rimanente della compagnia subito li imitò, travolgente torrente di resa.
Le armi non avevano fatto in tempo a cadere tutte che già le mitragliatrici pesanti dei carri erano dinanzi a loro, tanto nitide da sembrare trucchi di Cinecittà.
Il graduato della milizia ancora sbraitava, li voleva fucilati per tradimento, lì, subito, lui come giudice, plotone d’esecuzione, essenza stessa della giustizia fascista.
Uno di Venezia, colpendolo alle spalle, lo stese silenziosamente. Un gesto fatto senza paura e senza odio. Lo stese soltanto perché quello che stava dicendo non aveva senso e quello che avrebbe voluto fare li metteva tutti in pericolo.
Poi tutti in colonna, migliaia di ragazzi in calzoni corti con le facce da vecchi, le mani sopra la testa, pensando a quello che si doveva portare ed a quello che si doveva lasciare: giberne via, l’elmetto no, perché dentro ci puoi anche mangiare.
Sette anni: quel giorno costò sette anni di campo, 2555 giorni di sopravvivenza in apnea, vedendo la malattia degli altri, soffrendo la propria fame e la propria sete.
Dei cinque amici che erano partiti ne tornarono poi soltanto tre, uno con il sole d’Africa per sempre nella mente.
Al ritorno i posti da eroe erano già stati tutti assegnati.
Per loro niente lavoro, niente fidanzate -nel frattempo sposate o decedute- in loro nessuna voglia di tornare ad essere ancora prigionieri, questa volta dei cantieri o delle fabbriche dei nuovi padroni.
Ecco allora che si è costretti ad inventarsi un’attività da commercialista, da pittore o da elettricista, cosa normale per lui che era stato anni nel Genio ad inondare il cielo della luce delle fotoelettriche.
E poi il primo lavoro, in coppia con un socio più anziano: i fanali stradali da cambiare per conto del nuovo Comune. Quelli che alla luce del sole si riparavano e che di notte si facevano a pezzi… per farlo durare, quel benedetto lavoro.
Ed accanto al bisogno ecco nascere nuove pressioni, i nuovi inutili bisogni animati da un boom economico incalzante.
Così invecchiavano tutti i nostri genitori.
Ma lui, mio padre, si aggrappava invece a quel vuoto giovanile da riempire e lo faceva con caparbietà, con fede e fame di giustizia. E soprattutto con un’energia inconcepibile per noi ragazzi degli anni cinquanta, noi che ancora non avevamo sofferto niente.
E così dopo otto, nove ore di scaleo, mazzuolo e scalpello aveva sempre il fiato e la voglia per dirmi: - Sandro, vieni che ti straccio a ping pong. Una partita secca e via! -
Questa del tennis tavolo era una reminescenza dello Zonderwater Block, campo di lavoro 316, Inghilterra del nord. Dietro a quel filo spinato finalmente si mangiava a sufficienza, si fumava e rimaneva anche il tempo per diventare campioni di Blocco o, addirittura, di Campo.
A me lui non è mai riuscito ad insegnare niente di più dei rudimenti di base, perché tra noi si era creata una situazione strana, identica a quella che da ragazzi ci vedeva nascondere vicendevolmente i colpi migliori all’amico-avversario. Perdevo così quasi sempre e quando cominciai a vincere non fui per niente felice; soffrivo per lui che non vedeva più i colpi o che respirava a fatica soltanto dopo pochi scambi.
Gli chiesi così di insegnare le basi ai miei figli ed io decisi che con lui non avrei mai più giocato.
L’alluvione del ’66 la vivemmo insieme, uniti come non mai.
Io quattordicenne con la testa fra le nuvole, lui aspirante piccolo borghese con in testa il cinema estivo sull’Arno (che in quelle ore già non esisteva più), la Fiorentina (poi da scudetto), le rate da pagare (recente opportunità/trappola) per il nuovo frigorifero e la nuova televisione.
Quell’acqua nera ed amara riportò tutti noi fiorentini sulla linea di partenza e la mia famiglia non fece eccezione. Mesi bui: il magazzino di mio padre disintegrato dalla furia dell’Arno, la casa piena di conoscenti sfollati, pochi soldi, tanta pasta con la margarina.
In quei giorni io fui costretto a crescere, perdendo terreno sulla gioventù incalzante del genitore.
Poi arrivarono gli anni settanta, e prima che io entrassi in L.C. lui riuscì a bruciarmi sul tempo aderendo al nuovo PSIUP. Lui cristiano di base, socialista, luterano a favore di Don Mazzi, viaggiava con i jeans a zampa d’elefante ed il borsello in mano. Io iniziavo, invece, a vestirmi paramilitare: l’eskimo, gli anfibi ed i maglioni rossi fatti a mano.
A lui erano bastate le pezze ai piedi degli anni quaranta, si comprava ora vestiti blu e giacche grigie da cassiere di banca.
Io a gridare contro quelli che oggi sono rispettabilissimi senatori della maggioranza, lui dietro ai banchetti della “Bibbia per tutti”, a parlare d’uguaglianza e di libertà per i lavoratori. Viveva in simbiosi con il suo Dio operaio, un Creatore che cavalcava i nuovi tempi, insomma un Eterno di sinistra, che si era preso una pausa di riflessione e che, temporaneamente, non benediceva né questa né quella guerra.
Ero figlio d’operai e quindi la mia massima aspirazione non poteva che essere l’Istituto Tecnico, a maggior ragione in quel tempo in cui cominciava ad imperversare la moda per l’elettronica, quella delle valvole catodiche beninteso, mica quella dei micro circuiti o delle fibre ottiche. Roba che il PC era cosa da americani e chi si curvava sulle tastiere guardava schermi da quindici pollici rigorosamente in bianco e nero, con su numeri e soltanto numeri. All’istituto non ho mai imparato niente ed ancora oggi mi chiedo quale scorciatoia il destino generosamente mi regalò per arrivare alla sospirata maturità.
All’Istituto ho creduto di imparare la politica, quella che già si respirava nell’aria, tra i torni delle fabbriche come nelle aule delle Università. Quella che emergeva tra le volute di fumo nelle spossanti discussioni su cosa era veramente di sinistra, su come -e se- la prassi dovesse precedere la teoria o viceversa. Anche di politica, in seguito, ho però capito che non ne sapevo e non ne capivo niente.

Il mondo, per altro, cominciava ad apparirmi a colori: il verde dei giardini di Boboli a Palazzo Pitti, dove le ragazze ci aspettavano nei giorni consacrati alla forca o il nero delle cantine, che con fatica avevamo liberato dai fanghi d’Arno per farne le nostre alcove, fredde e maleodoranti di muffa, ma eccitanti perché solamente nostre; il grigio verde delle divise dei celerini, che c’incendiavano gli occhi con i lacrimogeni e c’inzuppavano i vestiti con gli idranti; il rosso ed il nero delle opposte bandiere o il grigio che arrancava per le tempie di mio padre, preoccupato ora di vedermi sbandato in quei giorni sbandati.
I miei hanno sempre cercato di farmi capire, non mi hanno mai proibito; quando, unica volta, mio padre ci provò, ci scontrammo con tale violenza che il solco tracciato non fu mai più riempito. Era un altro passaggio verso la non giovinezza, il salto doveroso di quel confine che ai genitori lascia il volto allibito ed il fiele in bocca ed a noi ragazzi le lacrime negli occhi per i sensi di colpa. Ero, ed ero stato, un figlio unico felice e, dunque, non ero troppo maturato.
Ma questo, allora, non lo sapevo.
Iniziarono a farmelo capire l’Arma, che mi portò in caserma ed il professore di servomeccanismi, che con enorme soddisfazione si adoperò perché la mia bocciatura alla maturità fosse la più amara possibile. Prima di dargli questa piccola soddisfazione da insegnante deluso ed impaurito dai tempi, rinunciai spontaneamente alla tenzone.
Credevo di aver fatto un gesto non dico eroico, ma almeno importante: fu la prima notevole cazzata della mia vita.

Molti mesi dopo ereditai il mio primo scooter, una Lambretta che mio padre aveva sostituito con una Vespa 175 ultimo modello. Era stato il premio per la mia maturità bis, conquistata con buoni voti dopo un anno di pentimenti e costrizioni, un anno importante in cui avevo trovato la politica vera, abbandonando le pericolose leggerezze che nel nostro mondo stavano virando verso la tragedia individuale degli anni del terrorismo.
Avevo la ragazza già da un bel po’, quando la Patria reclamò i propri diritti: fui tanto raccomandato da finire a Cecchignola, il luogo più brutto che avessi mai conosciuto e che, ancor oggi, considero uno dei posti ideali per cadere in depressione.
Di Roma di allora ricordo soltanto il Notturno di Termini, dove andavamo a fare l’agognata doccia calda e la trattoria Il Merlo, persa nell’allora campagna romana, dove le parolacce in romanesco di un merlo indiano addestrato, facevano da sottofondo alle nostre bevute, utili, se non altro, ad estraniarci momentaneamente da quelle divise grigioverdi che a Cecchignola sono la tua vita dalla sveglia al silenzio.
I miei venivano a trovarmi, mio padre mi prendeva sottobraccio, io lo allontanavo con la scusa della divisa. Avrei voluto, dovuto, stringerlo e baciarlo, ma la mia e la sua età non ce lo permettevano.
Ho cercato poi di recuperare, ma i punti persi non li ho mai più riottenuti.

Tornato dal militare subito il lavoro. Gli ottimistici anni settanta, gemellati alla buona ventura, mi regalarono uno smagliante camice bianco ed un lavoro da commesso. Il destino mi fece ancora una volta abile ed arruolato, questa volta per rendere la vista ai ricchi borghesi, che non trovavano di meglio, tra la prova di un Saint Loraint o di un Valentino, che sputare sui loro operai; su quei lavoratori che ogni giorno apparivano meno remissivi ed a volte, cosa inammissibile, addirittura violenti. Ascoltavo e soffrivo, sempre meno disposto ad abbracciare qualsiasi compromesso, ma impossibilitato a rinunciare alla nuova indipendenza che il salario mi forniva.
Smessa la divisa drop dell’esercito, tolta finalmente la camicia azzurra e la cravatta regimental, correvo a fare il ragazzo di bottega per la mia nuova passione politica.
Ecco allora i volantinaggi sulle tante fabbriche adesso scomparse, spazzate via dall’onda della concorrenza globale e trasformate in garage e supermercati.
Oppure la diffusione della stampa negli opifici della periferia industriale di Firenze, tra sguardi sospettosi ed impauriti. Con noi che parlavamo ai sordi, ad indifferenti tute blu, che ci guardavano quasi neppure fossimo antesignani dei Testimoni di Geova dei giorni nostri.



Quegli anni ci misero tutti alla prova; a chi faceva ed a chi subiva la politica.
A me, che imparavo le regole della duratura lotta di classe ed a mio padre che non riusciva a capire il mio nuovo cinismo, la nuova determinata, serena politica, tanto diversa dai gridati sentimenti di ieri.
Ancora nuovi, ancora sconosciuti: uno dinanzi all’altro iniziavamo un periodo d’allontanamento. Ci saremmo ritrovati soltanto molti anni dopo, lavorando alla mia nuova casa, nella mia nuova città.
Gli anni ottanta stravolsero la mia vita sentimentale: mi ero scoperto, da un giorno all’altro, diverso nel sentire e nel soffrire. E dunque nell’amare. Lui non capiva, ed in questo eravamo identici. Anni di presunta costruzione esistenziale erano accantonati dalla passione.
Ero sconosciuto a me stesso e finalmente molto più vecchio.
Sullo schermo della moviola su cui venivano proiettate le nostre vite, stavamo per ricongiungerci, fotogramma dopo fotogramma, con lui che arretrava ed io che avanzavo.
Stava per nascere il mio primo figlio. In mio padre la speranza dell’Immortalità trovava così un supporto meno labile della fede redentrice. Un altro maschio della specie avrebbe, infatti, dato seguito alla nostra discendenza, riproducendo il suo Dna.
Ma la fatica dell’allevamento della prole, per me e la mia compagna, cresceva a mano a mano che l’emozione per la novità si attenuava. Così la politica si allontanava, non tanto perché fossero gli anni dello sventurato, quanto provvidenziale riflusso, quanto per mancanza di tempo, consumato tra il nuovo lavoro da pendolare in ferrovia e l’accudienza all’infanzia.
Nel frattempo mio padre si era ritrovato da solo dopo una vita da socio e poi qualche malanno iniziava a manifestarsi. Fu così eseguita la prima delle due operazioni poi subite e tutto sembrava essere tornato alla quasi normalità.
Dopo qualche anno, leggendo le aride note di un’amniocentesi, seppi di essere di nuovo genitore, questa volta di una “femmina sana”. La casa in affitto, confortevole, ma di pochi metri quadri, parve diventare improvvisamente assolutamente inadeguata. La scelta ricadde allora sulla città dove già da tempo lavoravo: casa da ristrutturare, ma a prezzo equo.
Abbiamo così lavorato insieme, io e lui, per quasi un anno, con la fretta dettata da una pancia che ingrossava, con la voglia nuova di parlarsi finalmente alla pari.
Comunicavamo ed era un’immensa novità; ci capivamo ed era una trasformazione notevole. Più mia che sua.
Ero diventato un padre, un marito, un lavoratore della morente aristocrazia operaia.
I segni anticipatori della malattia, la Sua Malattia, erano già apparsi: feroci e deprimenti.
La seconda operazione, vissuta con fede incrollabile, gli regalò altri cinque anni di vita. Di una vita qualitativamente più che accettabile. Ho passato quel periodo eliminando la parola metastasi dal mio vocabolario. Ora più che mai avevo bisogno di lui, avevo urgenza di confrontarmi con la sua matura giovinezza, per farmi aiutare a recuperare la mia incompiuta crescita.
Anche negli anni della sua sopravvivenza non ho dato quello che dovevo e non ho ottenuto quello che potevo: è uno dei pochi rimpianti della mia vita.
Il giorno della sua morte io non ero là.
Quando sono arrivato avevo già pianto, unica testimone la mia compagna, a cui avevo confessato tutta la mia pena.
Davanti a lui che già non c’era più, ma che ancora sorrideva, ho iniziato l’ultima parte del percorso che ognuno di noi compie nell’età matura. Ho iniziato così a distaccarmi da me stesso, dal me proiettato in lui. Ho cominciato a rimuovere le sicurezze che apparentemente lui mi dava, per ritrovarle, finalmente identiche, in me, nuovo patrimonio del dolore.
Solo allora ho capito che non è facile accettare il nostro evolvere, come non è facile chiudere una parte così importante della nostra storia senza lasciarsi alle spalle rimpianti e nostalgie.
E’ un’operazione che non termina mai, che replica costantemente se stessa, una lieve sofferenza che ci è quotidiana compagna e che ci aiuta ad andare avanti, centimetro dopo centimetro, verso la naturale chiusa della vita.
Soltanto oggi, guardando le fotografie di mio padre, sento la sua vera essenza, m’immagino di compenetrare la sua anima terrena, i suoi sentimenti, avverto con pienezza il suo essere in me.
Oggi, dopo anni d’assenza, lui è finalmente, pienamente con me: nei miei pensieri, nel mio sentire, negli occhi dei miei figli.

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domenica 28 agosto 2005

Le mie prigioni!

A metà dell’anno 1970, i fili della vita si legarono in un altro di quei nodi che modificano per sempre la linearità della vita.
Non era il primo che si stringeva e, naturalmente, non fu neppure l’ultimo.

Tardi… è tardi… figurati se non facevamo tardi… eppure glielo avevo detto e ridetto… non mi sta mai a sentire, ma perché poi ci uscirò insieme? C’era bisogno di andare dall’altra parte della città per comprare questi cavoli di sigarette… fa il difficile lui… le vuole diverse… così ci fa la sua bella figura…. e ora siamo bloccati su questo autobus e la manifestazione è già partita… voleva fare il katanga… te lo immagini? “Ragazzi aspettiamo a fare il servizio d’ordine perché manca mister Katanga”… ma vai in quel posto, vai…e guarda lì, prima del Duomo ci sono già i vigili urbani che fanno tornare indietro le macchine…
-Autista ci apre per favore, tanto avanti non si va…no… no, ma si sta attenti… guardi che non è mica soltanto per noi, ci sono delle signore anziane che non respirano…
Non vuole aprire…oh, allora, forza… ma questo o è scemo o ci fa… meno male che appena ho parlato hanno cominciato a brontolare tutti…
-Guardi che siamo vicini al marciapiede… e poi vede che casino, non potremo mica passare il pomeriggio qui sopra…
E vai che si è scatenato l’effetto domino… senti che confusione… alla fine se non apre lo picchiano…
Oh, ha aperto… vai forza scendi… veloce, tira via… dai… dai che è tardi.
Ora mi tocca correre, il comizio dei fasci era dietro al Chiosco degli Sportivi, ma vattelappesca dove si sono posizionati tutti… sento delle sirene e poi dei colpi ovattati… vai ci siamo… è già cominciato il casino e non sappiamo neppure da dove passare…
Ho già il fiatone, cammino veloce. Sono già quasi all’altezza dei portici… Fabio è accanto a me, ma mi fa rabbia soltanto la sua ombra…
Un colpo… forte, ma veramente forte e poi sette od otto che corrono verso di noi, il fazzoletto davanti al viso… si chiamano e si cercano con lo sguardo… poi vedono noi, qualcuno deve averci riconosciuto… via, via… ci dicono di correre via… via veloci dietro l’angolo che arriva la pula…
Non arriva nessuno, ma il vento ci porta una zaffata di lacrimogeno che ci punge subito gli occhi… ecco cos’era quel colpo… ci siamo fermati e torniamo ad avanzare… ho messo anch’io il fazzoletto, anche se l’utilità è minima…
Ci affacciamo a vedere la prospettiva intera della galleria… a centocinquanta metri ci sono le tute grigioverdi dei celerini con gli scudi e qualche divisa nera dei CC con i Garand con i lacrimogeni innestati.
Proviamo ad andare avanti, loro sono abbastanza lontani e sembrano voler stare fermi a proteggere la piazza retrostante… con la coda dell’occhio vedo un’ombra filare in aria… molto in alto… diretta verso i celerini… nello stesso istante sento gridare dietro di me… la frase è gutturale e la paura del gesto inaspettato non me la fa capire bene… di sicuro qualcuno si è preso del maiale… l’ombra è salita, poi è scesa ed ora non è più un’ombra, ma una fiamma… colpisce il pavimento di piastrelline ed esplode in ogni direzione… rumore e fuoco, e subito, immediato, un altro colpo e poi un altro ancora… vedo il fumo in cima alle canne dei fucili e poi le due ogive di plastica che navigano nell’aria ad altezza d’uomo… si abbassano… rimbalzano e dietro di loro lasciano un fumo bianco, che il vento non si decide se far arrivare dalla nostra parte o rispedire verso quei volti nascosti dalle maschere antigas.
Questo vedo e questo penso in tre o quattro secondi, poi la paura stana l’adrenalina dal suo covo ed io scatto indietro, giusto in tempo per vedermi passare tra i piedi, a velocità ridotta, uno dei due candelotti.
Cambiare posizione, subito, qui non si riesce ad andare avanti e poi siamo scoperti.
Giriamo attorno al caseggiato, siamo dalla parte di Piazza Repubblica… nel mezzo troneggiano due idranti i cui cannoni perdono ancora acqua… siamo una trentina dietro l’angolo…Tutto intorno a noi si è fatto il vuoto… le vetrine sono tutte serrate… la gente ha pensato bene di togliersi di torno… appena mettiamo fuori il naso questi ci spazzano via… dobbiamo distrarli dall’altra parte, mentre qui mettiamo di traverso delle auto…
-Chi va di là? Lucio, Anto, Capello fate il giro e tirateveli dietro! Forza veloci e non fatevi beccare…
Passano due minuti e poi vediamo partire una sassaiola da via del Corso…
Le torrette delle pompe ruotano immediatamente ed iniziano a lanciare acqua… il primo getto colpisce in pieno la serranda a maglie del negozio d’angolo, l’acqua penetra all’interno e sette od otto scatole da scarpe iniziano a galleggiare per la soddisfazione del bottegaio che domattina aprirà il negozio… i tubi di scarico ruggiscono e sputano un fumaccio nero, mentre gli idranti partono in avanti… noi abbiamo già iniziato a spostare le auto: due Simca, una Renault ed una Fiat seicento… da questa parte la strada è bloccata… ci sbracciamo per dire agli altri di ritirarsi…
Ora bisogna ripetere l’azione dall’altra parte, prima che loro capiscano tutto e facciano partire le jeep… ma, invece, non ci lasciano il tempo di riflettere… cazzo sono già qui… sono arrivati di corsa anche loro… sono appena al di là delle auto… via via veloci, ripiegare… sento delle urla ed i soliti tonfi ovattati… poi non vedo più niente… gli occhi mi bruciano da morire… la gola non vuol saperne di far passare l’aria… qualcuno mi tira per un braccio… mi lascio portare via inciampando, ubriaco di paura, mentre penso che non ce la farò mai a tirare un altro respiro… che stronzo, soffocare con quattro pacchetti di Malboro in tasca… neanche fossi uno del Manifesto o del PSIUP…
Ci siamo allontanati e tra le lacrime comincio ad intravedere delle ombre… lo stomaco è in subbuglio e vomiterei volentieri…siamo in Piazza Duomo, lontani ed al sicuro… sento ancora le sirene e gli schianti, ma lontani… questa volta Fabio è servito a qualcosa…
-Grazie eh, me lo sono preso in pieno, che bischero vero?
Devo andare a casa a lavarmi… Fabio vuole accompagnarmi… guarda che non importa… lo so, lo so… ma magari le bischerate insieme facciamole meglio, che questa non è proprio stata un granché…
Sono trascorsi quaranta minuti, quando torniamo di nuovo verso Piazza Strozzi.
Il comizio è finito e così gli scontri. I celerini devono già essere rientrati in caserma, il puzzo dei lacrimogeni quasi non si avverte più.
-Andiamo al bar vai, vediamo se incontriamo qualcuno che ci racconta… oggi è andata così…
-Passiamo dietro al Chiosco degli Sportivi che facciamo prima… voglio prendere un caffé…
Davanti al palco da dove ha parlato il missino ci sono ancora molte persone, nella calca vedo poco e male.
Fabio è avanti a me due, tre metri…
Improvvisamente quello che mi pareva un muro di folla si apre… dalla piazza arrivano correndo due CC in assetto antisommossa e dietro di loro tre o quattro con la faccia che non promette niente di buono…
A questo punto il film della giornata diventa una foto.
La mente comincia a rallentare… vedo che mi puntano e sento, chiaramente, qualcuno che grida : “Quello, quello, prendi quello che ha le tasche piene di sassi, bloccalo!”
Fabio era già avanti… sprinta e sparisce tra la gente… sono solo e mi accorgo, con orrore, che siamo finiti in mezzo ai fasci… ma che scemi, che giornata del cazzo… se mi prendono mi ammazzano… ho talmente paura che rimango bloccato come un manichino… due secondi dopo sono stato preso per le braccia… me le torcono dietro ed un dolore acuto mi morde le spalle… istintivamente mi muovo in avanti ed un po’ camminando un po’ trascinato dai due CC mi ritrovo davanti alle scalette del cellulare.
Sento tutto intorno urla ed insulti… le voci che invece vengono da sotto i caschi dei carabinieri mi sembrano quelli di ragazzi come me… tutto è avvolto in un’atmosfera strana, tant’è che sono convinto di sognare… si, insomma, me lo avevano detto che a volte i sogni sono talmente concreti da confondersi con la realtà, ma non ci avevo mai creduto… si apre la porta del cellulare… all’interno varia umanità, tutta giovane come me… sento il calcio del fucile nella schiena e mi affretto a salire… la porta si richiude e rimango per qualche momento stranito… gli altri mi guardano con la stessa faccia… non conosco nessuno… due sono bagnati come pulcini… un altro è grosso due volte me… altri due sono in ombra verso il fondo… fuori è già il crepuscolo.
Lentamente realizzo: mi hanno beccato!
Quello che tante volte ho sentito dire da altri è capitato a me!
Panico su panico: a casa mi aspettano, ho detto che uscivo mezz’ora e tornavo ed adesso come faccio?
Tutti stanno in silenzio e mi pare che nessuno abbia voglia di parlare.
Ho la giacca a vento chiusa sino al collo, la apro, qui dentro fa un caldo boia… il fazzoletto… porc…ho ancora il fazzoletto… me lo devo togliere e subito… e senza farmi notare… può essere che senza me la cavo… come faccio ad avvisare… Fabio avrà visto che mi hanno beccato?
Speriamo li avvisi lui… forse loro possono aiutarmi…
Urla fuori. In quattro hanno preso uno che sarà un metro e novanta… ha il casco in testa e si divincola… strattona e cerca di colpire con una pedata il celerino dinanzi a lui… nel frattempo è arrivato un pazzo da dietro e gli ha calato il manganello tra la base del casco e le spalle… si è sentito un pof anche da dentro il cellulare… ora quel disgraziato è per terra e non so se sia svenuto o meno… lo lasciano tutti… uno si china per vedere come sta… e poi… poi… Madonna! Uno si è voltato di scatto e gli ha lasciato andare un calcio con lo scarpone d’ordinanza proprio in mezzo alle gambe… quello che ora sembra un fantoccio, da inerte che era ha fatto un sobbalzo ed ha cominciato a battere il casco per terra… dire che sono terrorizzato è dir poco… questo è il Cile… la Grecia… serro i ferri che bloccano il finestrino e mi impongo di guardare … un giovane CC, probabilmente di leva, gli toglie il casco, proprio in tempo perché quel poveretto inizi a vomitare… il colore cremisi che macchia l’asfalto mi fa venir voglia di imitarlo… i due ragazzini bagnati fradici che sono con me, si voltano di colpo ed uno inizia a piangere… lo farei volentieri anch’io se un minimo di dignità non me lo impedisse…
Lo portano via… lo caricano su di una ambulanza militare che parte lenta e senza sirena.
Mi metto a sedere e quasi immediatamente sento un colpo sull’esterno del cellulare: c’è una “cosa” rasata a zero che con una mano mi fa il saluto romano e con l’altra un gesto osceno.
Mi volto dall’altra parte mandandolo a quel paese: il cellulare è una gabbia, se io sono dentro lui è fuori, dunque non conta al momento. Il fascio si allontana e si avvicinano due signore di una certa età. Non so se sono incuriosite o se cercano un nipote qualsiasi. Gli dico di avvicinarsi. Scrivo velocemente su di un pezzetto di carta il numero di telefono di casa e lo getto attraverso il pertugio di sicurezza della porta. A cenni gli chiedo se, per favore, possano fare quel numero. Sembrano accettare, ma se ne vanno subito.
Fuori, ora, non c’è quasi più nessuno salvo i carabinieri.
Mi guardo attorno, il panico si è tramutato in preoccupazione.
Il grosso sta zitto a testa bassa e sembra parli tra se e se. Ha l’aspetto inquietante del calciante.
Tip e Tap hanno smesso di piangere e di consolarsi, avranno si e no quindici anni.
I due in fondo hanno l’aria da bravi ragazzi, ma uno ha un pantalone scucito ed insanguinato.
Tra noi dei gruppi ci conosciamo un po’ tutti, ma questi sono tutti facce sconosciute.
Il tempo ha ripreso a scorrere e pure velocemente se è vero che fuori oramai è buio.
Ora si sentono voci avvicinarsi, i toni sono più rilassati, probabilmente la sbirraglia va smobilitando.
Di colpo il cellulare accende il motore e con la dolcezza di un blindato si mette in movimento.
Mi torna di colpo la paura. Dove ci portano? Spero in Borgognissanti e non al Reparto, perché lassù a quest’ora saranno tutti ubriachi o di rabbbia o di onnipotenza, condizione che per noi significherebbe soltanto un fracco di botte.
Ci avviamo verso i Lungarni, si va dai CC. Meno male.
Questa caserma l’avevo vista soltanto una volta con mio padre per la festa delle Forze Armate. Almeno la sorte ha conservato la sua ironia.
Siamo dentro. A spintoni ci fanno scendere e salire le scale fino al secondo piano. Ci dividono uno per stanza. Dopo poco passa un brigadiere e mi chiede i documenti e poi si fa ridire tutti i dati a voce. Poi mi lascia solo, la porta è aperta, la saletta dove chiamano il primo fermato è accanto alla mia.
Tocca a Tap. Sento che gli richiedono le generalità, almeno sembra. Poi all’improvviso uno comincia ad urlare “Bastardo di m… hai fatto la doccia prima di uscire eh… cretino rispondi, forza, che non vedo l’ora di prenderti a schiaffi…” la voce si abbassa e non si sente più nulla.
Dopo venti minuti, più o meno, esce sottobraccio al solito brigadiere, alza appena la testa passandomi davanti. Occhi vuoti, rassegnati.
Ora entra Tip. Sento un colpo sulla scrivania e poi la sua voce stridula “No. No. Fermi, non mi fate male, è come dite voi, è tutto come dite voi…” “Dillo che sei uno scemo, dillo… più forte…bravo, così” . Tip esce piangendo con un ausiliario che l’accompagna. Ha gli occhi bassi e forse neppure mi vede.
Passa il grosso, testa bassa, gli occhi quasi chiusi. Lo portano in due, sembrano non fidarsi di quella sua calma piatta. Sento che gli chiedono di declinare le generalità e lui, con calma, scandendo le parole, con voce tranquilla gli regala un non certo sommesso “Ma vaffa’
n’ culo!”.
C’è un attimo di silenzio, mi pare di vedere le loro facce stupite, poi gli sguardi scambiati, forse più di uno sorride agli altri quando capiscono che comincia la loro festa… si iniziano a sentire colpi, sedie che cadono, grugniti e gemiti e qualcuno che ora urla… arriva di corsa un ausiliario e chiude la mia porta.
Passano una decina di minuti poi la porta si riapre. C’è silenzio, forse soltanto dei respiri affannati. Esce un graduato e fa segno a qualcuno dietro di lui che può venire avanti… vedo tre CC che tengono il mio compagno d’avventura, due per le braccia, l’altro per il collo in una sorta di mossa da lotta libera… il grosso sanguina abbondantemente dalla bocca e dal naso e la faccia è tutta impiastricciata di sangue e muco… ma quando passa davanti alla mia porta ha uno scatto dei suoi… torce la testa procurandosi probabilmente un dolore atroce e grida “compagno…” il resto si perde nell’avanbraccio del CC che ora gli serra ancor più collo e bocca… ma con uno guizzo incredibile si libera il braccio e cerca di portarlo in alto, la mano stretta a pugno… non ci riesce perché una della gurardie di lato gli lascia andare un pugno nello stomaco che lo affloscia come una marionetta.
Io, ovviamente, sono una statua di sale. Le ghiandole scaricano adrenalina e l’inquietudine monta divenendo paura e poi forse qualcosa di più… panico, si panico di fare la stessa fine degli altri… ma ora passano i due che avevo visto assieme sul cellulare e che ora mi appaiono troppo somiglianti per non essere fratelli… l’uno aiuta l’altro che zoppica ed avanza toccandosi la gamba, una smorfia di dolore sul volto. Spariscono nell’altra stanza seguiti da un CC e questa volta non si sente niente, niente voci, niente lamenti. E’ arrivato nel frattempo uno sui cinquanta, giacca e cravatta e sta parlando con un maresciallo, poi entra anche lui nella stanza.
Dopo una decina di minuti escono tutti insieme ed il maresciallo stringe la mano dell’incravattato. Questi hanno i santi in paradiso. O è un politico o è un avvocato.
Sta il fatto che se ne vanno mentre uno di loro beve tranquillamente da un bicchiere di carta.Mi sa che ora tocca a me. Che gli invento a questi? Devo trovare la cosa più banalmente stupida che esista, devo farmi passare per un meschinello e se non mi presteranno fede, darò comunque loro la via d’uscita di far finta di credermi.
Sarò così furbo da trasformarmi in un emerito cretino? e con questa paura addosso poi?
Big Ben ha detto stop. Tocca a me.
Lo stomaco non esiste più, la saliva passa direttamente dalla gola agli intestini, procurandomi spasmi notevoli.
-Chi sei? Sono in tre e mi guardano incazzati. Io ripeto nome, cognome ed indirizzo e sottolineo di abitare vicino, anzi, quasi all’interno della chiesa. Un po’ di fede non fa mai male.
- Perché ero lì? No, guardi maresciallo che io non c’entro niente, stavo andando al bar come faccio ogni giorno e mi hanno preso, ma guardi che, glielo possono confermare, mica ho fatto resistenza, anzi… e poi senta, a proposito, dovrei chiederle un favore, sempre se è possibile, altrimenti lasci stare… ecco vede io dovevo vedere una ragazza al bar… ma sa, non era la mia… che se lei viene a saperlo mi fa una canata… si… si guardi che lo so che sono stupidaggini, ma per me sarebbe importante… insomma sempre che loro possano chiudere un occhio… perché per questa cosa del comizio sono tranquillo, ma per la fregatura alla mia fidanzata molto meno… sa, ci tengo, anche se a volte… insomma mi capisce… si, si sto zitto!
-Perché sei passato di lì, ti hanno visto con i sassi in tasca!
-No guardi che c’è un equivoco… soltanto che anche qui ho fatto una stupidata… si, si ora glielo dico… insomma ero andato a comprare le sigarette di contrabbando… guardi che io le compro sempre dal tabacchino, ma il mio amico ha detto dai… e dai, vieni… insomma non ho saputo dirgli di no…oh, ma guardi che se c’è da pagare una multa i miei la pagano… solo che ora magari staranno in pensiero… dovevo tornare per le sette ed ora è più di mezzanotte… chissà come stanno male… no, guardi che non sono lacrime di coccodrillo, è che è soltanto che sono in pensiero per loro… quando sanno che mi hanno portato in caserma gli prende un colpo… sa mio padre fa l’artigiano e mia madre la cassiera di bar… si, insomma si tira avanti e loro si sacrificano per farmi studiare e io ora gli dò questi dispiaceri… no, no non mi serve il dottore sto bene…
Entrano i due CC che mi hanno beccato.
-No effettivamente non ha opposto resistenza e quando lo abbiamo fermato camminava regolarmente lato strada, ma sa in quella confusione…
-Va bene, levati di qui e ricordati che rimani schedato, ti sei giocato il futuro, cretino! Vai, vai!
Mi alzo, ringrazio ed esco come camminando sulle nuvole.
Scendo al piano terra, lentamente, molto lentamente.
Esco dalla caserma. Volto l’angolo, mi giro e mi guardo alle spalle. Niente e nessuno.
Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta… scatto come un centometrista, l’aria fresca della notte sulla faccia… corro fino alla prima cabina telefonica e chiamo casa.
- Sono io , sono io, vi avevano avvertito? No, anzi si, mi rispondono, quel cretino di Fabio si è deciso soltanto alle nove a chiamare non avendo mie notizie.
-Dove sono? Sul Lungarni… vicino alla pescaia… venite a prendermi?
Si, si grazie, vi aspetto…
Esco dalla cabina e mi accendo una sigaretta.
Aspiro ed è come farsi due etti di fumo.
L’Arno è veramente d’argento, la pescaia brilla alla luna ed io sono felice come non mai.
E’ andata, fumo ed assorbo questa notte che è tutta mia, densa come la cioccolata calda, profumata come una ragazza della pubblicità, una ragazza mamma ed amante che mi stringe forte, mi dice bravo, è andata, sei qui con me ora, stai tranquillo.
Anche questo nodo della vita, duro e stretto, è passato tra le mie dita ed anche se le ha lasciate piagate e forse la cicatrice si vedrà per sempre, è uscito dal presente per divenire passato
Fari… il Maggiolino di mio zio… arrivano i compagni… arriva il Settimo Lancieri…
arriva il domani, che, probabilmente, sarà meglio di questo oggi.
Ed io ci sarò.
Figurarsi se non ci sarò!

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venerdì 20 maggio 2005

L'inizio della fine

Interno notte.
Cucina arredata anni sessanta, luce al neon, due attori ed un’attrice.
Bianco e nero.

Sono solo in casa.
Tre volte la settimana, a quest’ora, sono solo in casa.
Ho fame. Ho già mangiato del pane ed ho ancora fame.
Mancano quindici minuti alle otto e non torna nessuno.
Uffa, ho già apparecchiato, leggerò.
Finalmente le chiavi nella porta. Sono tornati.
Parlano, parlano sempre tra loro, ma che avranno da dirsi poi? Andiamo che ho fame.
Profumo di mia madre.
Odore di fumo sulla tuta da lavoro di mio padre.
Ho buttato la pasta. Loro sono a lavarsi.
Mio padre è arrivato in cucina, finalmente tra poco si mangia.
Ha acceso la radio: notiziario delle venti.
Ma che dice, si capiscono due parole su tre, questa radio è finita come i miei.
Cosa? Zitti un po’ voi… zitti ho detto, che non si sente niente… dice che hanno messo una bomba… madonna ci sono un monte di morti… a Milano… in una banca a Milano… dice che forse sono stati gli anarchici… non è possibile, che stronzata è questa…
Non so che fare, anzi sì, telefono a F….
-Ma chi se ne frega se si consuma una telefonata, interessa a me!
-Pronto F. hai sentito la radio? Ah, l’hanno detto anche alla tele? Ora l’accendo… ma secondo te che è successo? Si. L’ho pensato anch’io, gli anarchici queste cazzate non le fanno… e se fossero stati i fascisti?
-Senti mangio qualcosa e ci vediamo in centro…ciao.
-Si, dopo esco… si anche stasera… ma dove volete che vada, in centro… Si, ma che casino, ora secondo voi le mettiamo noi le bombe… si, va bene, va bene, come volete…





Esterno notte.
Una piazza, grandi arcate ottocentesche, gruppo di attori che parlano concitati.
Bianco e nero.

No, guardate che ha ragione Bellico questi ci stanno preparando una trappola… hanno arrestato quel ferroviere… il Pinelli… hanno detto i compagni di Milano che lo stanno interrogando… povero Cristo, chissà quante ne rimedia…
Oh, domattina tutti davanti a scuola, sciopero naturalmente… bisogna organizzare i picchetti… no ragazzi un altro caffè non lo voglio.. dai, ciao, ci vediamo domani.




Esterno giorno.
Cancelli di un edificio scolastico, quattro attori distribuiscono dei volantini, un’attrice parla con un megafono, presenti n comparse
Bianco e nero.

No, non si entra… stamani sciopero… ma dove vivete, hanno messo le bombe, volete che le mettano anche qui? Macchè anarchici, non state a sentire quello che dicono, vi prendono per il culo… Oh, amico, estremisti un tubo, siete voi della FGCI che state sempre a cercare di trovare delle scusanti a tutto… non se ne può più dei vostri ragionamenti… e dai che state dalla parte dei padroni… stai calmino, capito, vai, vai in classe crumirino…
Forza ragazzi, formiamo il corteo…
Vai, eccoli, con la loro 1100 blu, perché non ce lo scrivono sopra: “Polizia politica”, sarebbero meno ridicoli…
-Si, ecco il volantino, no i documenti non li abbiamo… si, si fa il corteo c’è qualche problema? Parlatene con quel compagno là, quello con la sciarpa nera…
Ragazzi non abbiate paura, cercano di intimidirci, ma non possono farci nulla…
[questi alla fine, dai e dai, trovano rogna]
-Oh, Formaggino che hanno detto i questurini? Lo sapevo che non ci facevano andare in centro, hanno troppa paura… allora andiamo in corteo al Palazzetto dello Sport e facciamo assemblea…
-Forza, muoversi, si va al Palazzotto.
-G., con quel megafono, lancia qualche parola d’ordine… dai che poi si fa di corsa l’ultimo pezzo…

-Ora calma, noi entriamo a parlare con i prof che fanno ginnastica…
-Non ti preoccupare, coso, che quelli escono e anche alla svelta…
-Biondi, guardi che deve interrompere la partita perché c’è assemblea… no, guardi che non sono ordini e non siamo strafottenti, perché potevamo entrare tutti e trecento e lei si levava velocemente da qua… no, non vogliamo creare problemi, sempre che lei non li crei a noi… guardi. vada pure a dirlo a chi le pare, che tanto a noi non ce ne frega niente… si, se vuole può anche chiamarli, anzi stanno qui fuori, anche se sono in borghese… vada, vada, ci parli che è meglio per tutti…

-Fate funzionare questo coso, altrimenti si parla con il megafono… ragazzi, zitti, fate meno casino, la questione è seria… qui qualcuno ha deciso di mettere le bombe per farci paura, ma non hanno capito che così ci fanno soltanto incazzare di più… da Milano hanno detto che stanno rastrellando la città ed hanno già fermato almeno cinquanta compagni… questi vogliono farci paura, ma noi la paura la dobbiamo fare a loro… giusto?
[ boato, rumore di fondo] Bravi, così si risponde alle provocazioni… resta inteso che i prossimi giorni facciamo assemblea permanente [siamo forti, più forti di loro, cazzo]…
-G. dammi il megafono, forza:




Esterno giorno.
Aula magna di un edificio scolastico, due attori con un megafono parlano a n comparse.
Bianco e nero.

-Compagni, ieri l’anarchico Pinelli è stato ammazzato in Questura a Milano. Hanno detto che si è suicidato gettandosi da una finestra, ma di sicuro ce lo hanno buttato loro. Lo Stato ha paura e reagisce con tutti i mezzi. Dobbiamo lasciarli fare? Dobbiamo aspettarli a casa, fino a che non vengono a prenderci? Scendiamo nelle piazze, facciamogli vedere che non possono piegarci, uniamoci ai lavoratori che stanno rivendicando maggiori salari e migliori condizioni di lavoro, uniamoci ai nostri fratelli, per una vita migliore in fabbrica e per una scuola proletaria, che metta tutti nelle condizioni di studiare. Tutti, non soltanto i figli di papà, i figli di chi fa i soldi sulla nostra pelle e sulla pelle dei lavoratori!



Esterno giorno.
Un edificio scolastico, due attori distribuiscono giornali a n comparse.
Bianco e nero.

-Compagni leggete il “Valpreda Libero”, foglio di contro-informazione sull’arresto dell’anarchico Pietro Valpreda, che lo stato vuole incastrare come esecutore materiale dell’attentato di Piazza Fontana!
Dobbiamo mantenere la mobilitazione perché il compagno Pietro non diventi un mostro sbattuto in prima pagina!

-Senti Fabio qui mi sembra un gran casino, bisogna organizzarsi meglio, aprire questa cavolo di sede e cominciare a lavorare, perché a questi qui, mi sa, che gliene frega il giusto delle bombe… Questi ci vengono dietro se cominciamo a dare degli esempi… si, anche a scuola… facciamogli vedere che non vogliamo più sopportare la repressione a partire dai professori… che cosa si deve fare di preciso non lo so, parliamone… sentiamo Milano… facciamo più scioperi… senti ai GAP c’è riunione anche domani, andiamoci… anche se io nei Katanga non entro, non ho il fisico e lo scontro mi fa anche un po’ paura… senti, stai calmo, io preferisco dirlo apertamente, non come qualcuno che fa tanto il ganzo e poi ci ritroviamo soltanto in venti a spostare le macchine… al massimo faccio il cordone laterale… e poi non è mica obbligatorio andare allo scontro… non si vince mica in quattro bischeri per la strada… ci vuole l’organizzazione, ci vuole… macchè stalinista, ora se uno vuole organizzarsi diventa per forza stalinista…
-Oh. Stammi a sentire Fabio, io voglio vincere, mica divertirmi!







Immagine a pieno campo di una pagina del Corriere della sera del 29 dicembre1972.
Titolo in quarta.
Bianco e nero.

Oggi è tornato libero Pietro Valpreda. E’ stata, infatti, approvata una legge che prevede la possibilità di accordare la libertà provvisoria anche per i reati in cui è obbligatorio il mandato di cattura.






Immagine dell’aula del Tribunale di Catanzaro.
Scritta in sovrimpressione.
Bianco e nero.
18 gennaio 1977
Imputati: neofascisti, Sid e anarchici. La sentenza: ergastolo per Freda, Ventura e Giannettini, assolti Valpreda e Merlino.


Immagine dell’aula del Tribunale di Catanzaro.
Scritta in sovrimpressione.
Bianco e nero.

13 dicembre 1984.
E’ iniziato il quinto processo che vede come imputati Valpreda, Merlino, Freda e Ventura. Tutti assolti.


Immagine servizio televisivo Rai 3.
Scritta in sovrimpressione.
Bianco e nero.
Giugno1990. Le indagini riaperte dal Pubblico Ministero Salvini subiscono una svolta decisiva. Delfo Zorzi, capo operativo della cellula veneta di ordine Nuovo, per sua stessa ammissione, è l'esecutore materiale della strage. Zorzi dopo l’attentato riparò in Giappone dove tuttora vive protetto dal governo Nipponico, che ha sempre rifiutato di concedere l’estradizione del neofascista.

Esterno giorno.
Atrio di una stazione.
Due attori conversano.
Colore.


- Ciao A., hai letto la notizia? Dai e dai dopo trentasei anni la Cassazione ha confermato che non ci sono colpevoli per la strage di Piazza fontana.
Come volevasi dimostrare!
-Si, lo so sembra assurdo anche a me, ma è così, d’altra parte lo sai, in Italia questo ed altro… non dobbiamo certo meravigliarci… e poi tutte le altre stragi? Sai cosa mi rende un po’ triste? Che a commentare questa cosa siamo rimasti i soliti quattro bischeri… si sempre quelli di allora… i sopravvissuti… hai ragione tu, siamo dinosauri in attesa del meteorite… comunque io la mia su queste storie voglio continuare a dirla… magari proprio a quelli della nostra generazione, che sembravano voler rivoltare il mondo e poi, com’era prevedibile, sono finiti a fare i dirigenti o nelle fabbriche o negli uffici o nei partiti, che poi è la stessa cosa… ma non ti preoccupare che le cose stanno cambiando… è che magari quando se ne accorgeranno sarà troppo tardi… tutti struzzi catodici che passano il tempo contando gli spiccioli… non è che personalmente sia felice, ma tra poco vedrai quanti sogni infranti… e d’altronde i nostri figli campano soltanto grazie a noi… quando saranno soli cambierà la musica… senti non è bello da dirsi, perché sarà pure la situazione storica, dipenderà dalla controrivoluzione, dai problemi di tutti, ma sai che ti dico? Facciamo proprio schifo!


Ripensandoci, l’autunno di quell’anno fu effettivamente veramente infuocato, sia sul fronte sindacale che delle lotte studentesche. Troppo, probabilmente, per lo Stato ed i suoi apparati, che pensarono bene che era ora di raffreddare un po’ i bollenti spiriti soprattutto della classe operaia, che stava rialzando pericolosamente la testa dopo anni di ricostruzione, durante i quali gli era stato imposto di lavorare a testa bassa e a bocca chiusa.

Ecco perché il giorno antecedente il mio compleanno, alle 16 e 37 minuti, in Piazza Fontana, a Milano, furono spazzate via diciotto vite, falciate da una bomba che fece anche ottantasette feriti.
Era la risposta “algerina” dei padroni del vapore ai loro schiavi.
Era il primo di una lunga serie di attentati che, poi, la storia indicherà come “la strategia della tensione”.

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venerdì 13 maggio 2005

Il sessantotto

Dal ’66 al ‘69
Quando iniziammo ad uscire dall’incubo dell’alluvione, avevamo già ampiamente percorso buona parte del 1967.
Sino allora eravamo stati presi dalla sopravvivenza e privi com’eravamo d’energia elettrica ed essendo introvabili i giornali, eravamo rimasti senza notizie dal mondo esterno.
Avevamo, insomma, vissuto in una sorta d’apnea culturale per mesi.
Ma nonostante i nostri guai, nel frattempo, il resto del pianeta aveva continuato a vivere, anche se pure preistoricamente come al solito.
La tensione mondiale aumentava: a giugno, con la guerra dei sei giorni, gli israeliani estendevano il loro territorio dal Libano meridionale al Sinai, sino ai confini giordani.
In Grecia s’impadronivano del potere i colonnelli: il risultato sarà successivamente una repressione spietata contro gli oppositori di sinistra.
In Bolivia veniva assassinato Che Guevara.
In Nigeria scoppiava la guerra civile per la secessione del Biafra: da allora il nome di quella regione, per noi, divenne sinonimo di fame e disperazione.
In Italia, più semplicemente, scoppiava lo scandalo per i Servizi deviati ed iniziavano le proteste ed i cortei contro la riforma Gui.
In quei mesi sono occupati gli atenei di Pisa, Trento, Milano, Torino.
Io sono stato promosso in seconda istituto senza infamia e senza lode.
I tempi delle medie sembrano lontani, qua mi sento un numero, sono insofferente a questa classe affollata, alla necessità di adoperare unghie e denti per rimanere a galla o comunque per non fare la fine di quei due o tre che sono presi costantemente di mira per la loro presunta incapacità a vivere secondo i canoni della maggioranza.
Probabilmente sono il perfetto connubio d’ipersensibilità ed immaturità.
Non ricordo assolutamente nessuno dei miei compagni di allora, eppure alle elementari ed alle medie avevo fior fiore d’amici.
Da quando entro in quel palazzaccio scolastico sino a quando n’esco, è una quotidiana sofferenza: sto imparando ad imboscarmi, una pratica che mi sarà molto utile durante i quindici mesi di militare.
Ricordo solo la professoressa d’italiano, che a cinquanta anni era lì a chiedersi come poteva fare a reggere sino alla pensione, sovrastata dal diffuso disinteresse e dalla crudezza di quei ragazzi.
Nel frattempo era arrivato il ’68 ed ancora non lo sapevamo.
Il 1968 è il giro di boa, l’anno di Valle Giulia, delle Alfa e dei gipponi verde militare della celere. I poliziotti, in quell’occasione, sono ancora impreparati, legati nei movimenti dai loro pastrani indietreggiano e si disperdono: dopo un primo scontro sono già pronti a ripiegare.
Gli studenti hanno ancora i capelli corti e le idee poco chiare come sempre.
Finisce tra sassaiole e lacrimogeni; i giornali titolano stupiti: “Follia all’Università d’Architettura di Roma”.
In Francia tutti hanno le idee più chiare, o così almeno pensano: è il Maggio francese, quello rimasto nei libri di testo.
In Messico si fa ancora più seriamente: decine di studenti sono uccisi durante una manifestazione in piazza delle Tre Culture a Città del Messico.
A Praga Dubcek è destituito con la forza dall’esercito sovietico.
Negli Stati Uniti sono assassinati Robert Kennedy e Martin Luther King e Nixon diviene presidente.
In Italia dopo un’alluvione c’è da aspettarsi un terremoto ed, infatti, il Belice n’è devastato.
Se andate là, ancora oggi esistono le baracche dei primi soccorsi, abitate e tramandate di madre in figlia.
Io comincio a formarmi un’idea di massima di come va il mondo.
Inizio a pensare che forse fare lo studente “in rivolta” sia meno noioso che fare il bravo studente.
Oggi si direbbe: i bravi bambini vanno in Paradiso, ma quelli cattivi vanno ovunque.
Ed allora rifletto, cerco di capire.
Il mondo così com’è non mi piace per niente e, in ogni caso, questo iniziare a sentirmi parte di un tutto è molto gratificante.
Che gli studenti sono politicamente il nulla, lo capirò soltanto molto tempo dopo, per ora mi affascina quel turbamento che inizio ad avvertire nel corpo insegnante ed in generale nella cosiddetta opinione pubblica.
Avevo già gli stivaletti ed il cappello alle Beatles, decido ora per un cambiamento d’immagine: eskimo, pantaloni di velluto a coste ed anfibi.
Tra poco arriveranno maglioni fatti a mano e sciarpa rossa.
Ma la lotta non è alle porte e mi hanno rimandato in due materie; studio come un matto ed a settembre è un figurone. Sono in terza.
Abbiamo iniziato a ripulire dal fango dell’alluvione una cantina in Via dei Pepi.
Il padrone è tutto contento, ottiene lavoro gratis e può contare -lui che ha esperienza- sulla nostra futura incostanza e dunque su una cantina pulita a sua completa disposizione. Facciamo le prime feste.
Ho conosciuto una ragazza carina, intelligente e, soprattutto, che mi sta a sentire. Potrebbe essere un buon inizio.
A scuola abbiamo inventato gli “attivi”, assemblee di classe ed interclasse, che pretendiamo, dopo un inizio legalitario, di gestire da soli nei tempi e nei modi.
Il Movimento Studentesco è oramai una realtà, in molte città i manifestanti hanno scaramucce con la polizia e l’effetto valanga amplifica le poche notizie che iniziano a circolare.
Il mio disagio e la mia insofferenza aumentano, sia verso i miei, sia verso il mondo intero.
In quarta andrò se rimedierò tre materie: l’escalation è preoccupante, ma chi se ne frega.
La mia estate passa sui moli di cemento di Castiglioncello, vicino alla nuova ragazza, ma con la testa allo studio e a questi nuovi pensieri che ronzano incessanti: il mio ruolo, il mio domani, il futuro di tutti.
Mi pesa l’inutilità di qualsiasi cosa abbia sinora messo in atto per cercare di oppormi a questa cappa che sento sulla testa, una zavorra che è connubio d’ingiustizia ed insoddisfazione. Avverto, forte, il desiderio di qualcosa di nuovo, che ancora, come tanti altri, non riesco a mettere a fuoco.
Ancora non sapevamo che in questi anni si stavano mettendo in gioco i destini di molti di noi, tanti trip diversi, dalla droga alla Skorpion, ai viaggi senza ritorno verso i paradisi orientali.
Anche io ero dinanzi a strade diverse, ma, fortunatamente, il carattere e la formazione mi hanno sempre spinto ai margini di quel gorgo. Da lì sono stato obbligato ad osservare la fine di non pochi miei compagni, risucchiati nel nulla.
Fortunatamente le P38, epilogo di quegli anni che dovevamo ancora vivere, erano ancora lontane ed i passamontagna servivano soltanto per ripararsi dal freddo andando a scuola in motorino.
I nostri mascheramenti di battaglia, per il momento, erano soltanto i fazzoletti sul volto, quasi un’imitazione dei banditi dei film western.
In quel periodo iniziarono a circolare i volantini di Potere Operaio.
Cominciammo veramente a credere di essere un’entità reale, di poter creare qualcosa di diverso in questa società e di non essere costretti a fare soltanto “il nostro dovere”.
I nostri genitori si stavano allontanando da noi a velocità esponenziale e le regole sembravano esserci poste dinanzi soltanto perchè potessimo infrangerle.
La nostra generazione comprese in quei giorni di avere un’opportunità, ossia di questo s’illudeva, ma in ogni modo, l’energia liberata stava divenendo smisurata e minacciosamente continuava a lievitare.
Io supero lo scoglio degli esami di riparazione, anche se i professori iniziano a guardarmi in maniera particolare.
Dal mio punto di vista i loro timori si trasformano in forza, le loro oneste incertezze nelle mie future arroganze.
Il 1969 è il primo dei miei due anni terrificanti, atroci nei rapporti con i miei, con la scuola, con il mondo intero, con me stesso.
Sono in quarta istituto ed alla fine dell’anno sarò rimandato a settembre in tutte le materie per aver superato il quarto delle assenze consentite.
In realtà supererò abbondantemente la metà.
In quell’anno le paure di mia madre prendono forma, si concretizzano: ho infatti incontrato le tanto temute “cattive compagnie”, in particolare un nuovo compagno di classe che viene da Livorno.
L’ho trovato subito interessante, con le sue chiacchiere, il modo sfacciato di opporsi alla vita, le critiche feroci al sistema, il vivere da solo in pensione, quell’aria da me ne frego che affascina sempre quelli come me.
Aveva un modo di pensare, una sorta d’ideologia, che, sostanzialmente, al momento del suo arrivo a Firenze, credo fosse ancora fascista. Almeno in quella forma strana che gli anarchici individualisti coltivano a quell’età. Capì che con me gli conveniva sbandierare un altro vessillo e si adeguò: io facevo Pinocchio e lui compendiava Gatto e Volpe.
Non ricordo come fu che il nostro covo, la nostra ragnatela, divenne un bar del centro, in Piazza Davanzati.
Meno che andare a scuola facevamo di tutto.
Nella saletta sottostante, quelle che oggi sono definite tea-room, aspettavamo al varco le ragazze, che iniziavano ad avere i loro bisogni di ribellione, necessità alle quali noi disegnavamo i confini. Ce n’erano grate e ci ascoltavano cercando di assumere quell’aria un po’ vissuta, un po’ sofferta che si presumeva noi avessimo gradito.
Ci raccontavano le loro pene, mai semplicemente amorose, perché questo non era più di moda, ma sempre intrise di politica fantasiosa, di richiami a libri ed autori che ignoravano quanto noi.
Noi eravamo quelli che le capivano, anzi quelli che maggiormente le incitavano ad una loro vita autonoma ed indipendente, che le spingevano a far valere la loro personalità, a liberare il loro fuoco mistico.
E tutte, inevitabilmente, ci cascavano.
Alla fine di maggio la Viola mi regalò una di quelle emozioni che si possono raccontare ai figli e per come stanno le cose a tutt’oggi, purtroppo anche ai nipoti. Battendo la Nemica Storica, l’Innominabile, con una giornata d’anticipo, vinciamo il tanto sospirato secondo Scudetto.
Due giorni e due notti di giubilo; Firenze è ai piedi della sua squadra e per un anno può sentirsi caput mundi. Finalmente noi fiorentini possiamo pavoneggiarci, vantarci ed esibire i nostri campioni.
Con Fabio passiamo giornate e notti in giro per la città, sventolando il bandierone dai finestrini della sua Fiat 850.
Non soltanto nella società, ma anche nel calcio, pensiamo, il vento sta cambiando.
Mai giudizio fu più illusorio! Anche se nel mondo reale, in effetti, le cose, in quei giorni, sembravano aver imboccato la giusta strada.
Sin dall’inizio dell’anno, infatti, c’erano state dimostrazioni e scioperi degli studenti, proteste che sembravano non poter che espandersi a macchia d’olio.
Nel triangolo industriale anche gli operai iniziavano a scioperare e nelle fabbriche si faceva strada un nuovo modo di porsi dinanzi all’autorità interna.
I capi reparto iniziarono a guardarsi sovente le spalle.
Per quanto riguarda i nostri cortei di allora, quelli degli studenti, che pur gridando “studenti-operai-uniti-nella-lotta” erano ancora soli soletti, erano del tutto diversi da quelli che nei nostri anni hanno visto contrapporsi forze dell’ordine e no-global.
Differenti anche da quelli della metà e fine anni settanta, quando l’Autonomia era una realtà organizzata e gli scioperi momenti strategici d’attacco allo Stato.
Quelle prime nostre dimostrazioni erano semplicemente lo sfogo di ragazzi che chiedevano di avere la speranza di vivere la loro vita diversamente da quella, operosa ma triste e grigia, dei loro padri e delle loro madri.
Questo almeno all’inizio, prima che Celere e CC spazzassero via ogni illusione, caricandoci e picchiandoci, trattandoci, insomma, come nessuno prima aveva mai fatto, neppure le nostre famiglie.
Allora in noi, figli del boom economico, scattò un meccanismo di rivalsa, d’onesta vendetta, di ripicca personale, come di chi, dopo aver visto per la prima volta i colori per pochi attimi, è bendato di nuovo per il resto della vita.
Cominciammo allora ad organizzarci.
Cioè iniziammo a capire che dovevamo opporre qualcosa di nuovo allo strapotere di chi derideva i nostri capelli già lunghi, i nostri jeans scritti a penna e le nostre aspirazioni per un impossibile mondo nuovo.
Lotta Continua nasce così tra l’estate e l’autunno a Torino. S’incontrano al suo interno studenti provenienti dall'Università di Trento, della Cattolica di Milano, dalla Normale di Pisa e operai delle carrozzerie di Mirafiori.
La sua storia si può grossolanamente dividere in due parti: fino all'ottobre 1972, periodo in cui le attività dell'organizzazione furono sempre poco strutturate e spesso lasciate allo spontaneismo e dal '72 in poi, quando L.C. si avviò verso una vera e propria "istituzionalizzazione", che la portò, nel gennaio del 1975, a strutturarsi come un partito.
Ed è in ottobre che si concretizza il processo iniziato in estate, principalmente per iniziativa del Potere Operaio di Pisa, dove militavano Sofri e Pietrostefani, del Potere Proletario di Pavia, del Movimento Studentesco di Torino, di Milano e di Trento.
Nella galassia dei gruppi rivoluzionari sorti dopo il Sessantotto (tra cui Servire il popolo, Avanguardia operaia, Potere operaio, il Manifesto), Lotta continua rappresentò l'anima libertaria e spontaneista.
Chi conobbe quella prima L.C. ed aveva già altre idee, prese subito strade diverse; quelli a cui quelle idee vennero da lì a pochi anni, ne uscirono per aderire ad altre organizzazioni.
In quanto a Sofri devo dire che non ha mai goduto delle mie simpatie. Allora consideravo Adriano spocchioso e distante, il prototipo dell’intellettuale che gioca a fare il rivoluzionario, che si finge schivo per essere più ricercato.
Più tardi poi, quando già le nostre strade si erano divise da tempo, mi schifò molto il suo approdo alla Corte dei Miracoli craxiana, con lui e Martelli a sputacchiare metaforicamente sui passanti dall’alto del loro balconcino della politica.
Ma oggi che Adriano è in galera da anni per un qualcosa che con molta probabilità non ha fatto, oggi che cerca di sopravvivere con coerenza ad una pena che sembra non debba finire, oggi, finalmente, riesco ad avere rispetto per lui.
In lui, lo riconosco, rivedo un po’ me stesso: un uomo invecchiato, ma ancora con la voglia di capire, di comunicare, di ricordare e far ricordare.
In quegli anni, non soltanto tra noi, ma nell’intera società, iniziavano a serpeggiare sentimenti di rivolta e di rivalsa, che in breve ci convinsero della necessità di spostarci sullo stesso terreno sul quale ritenevamo stesse già camminando l’avversario di classe.
Ripensare a quel periodo cercando di capire, significa calarsi in quel clima, in quel vento culturale che spazzò tutta la società, che coinvolse i nostri padri ed i nostri fratelli, al pari di tutti noi.
I freni venivano allentati, le vecchie regole messe in discussione, la nostra sollevazione diveniva quotidianità, accettata e discussa in tutte le nostre famiglie.
La violenza politica intesa come insubordinazione totale divenne la consuetudine.
Nonostante tutto ciò, L.C. prese sempre le distanze dagli episodi di terrorismo che si succedettero in quegli anni. Noi c’illudevamo, banalmente, che bastasse scendere in piazza, che bastasse criticare l'autoritarismo, eravamo mossi dall’insana voglia di rivoluzionare le strutture del sistema sociale e non sapevamo niente di politica e di scontri sociali, di Marx e di Lenin, di petrolio e multinazionali.
Ci limitavamo a rilanciare nella vita d’ogni giorno gli slogan che gridavamo nei cortei, pensavamo alla Cina come alla genesi del nuovo mondo e là, intanto, migliaia di comunisti erano passati per le armi, come trenta anni prima era successo nella Russia stalinista.
Volevamo fare la rivoluzione, ma eravamo soltanto dei contestatori.
E da bravi critici, poi, molti di noi hanno voluto provare l’ebbrezza del ponte di comando.

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martedì 19 aprile 2005

Qui giunse straripando…

Tutto l’autunno di quell’anno fu particolarmente piovoso, ottobre lo fu in maniera particolare e l’ultima settimana è poi rimasta negli annali quanto a millimetri d’acqua precipitati.
Il 4 novembre, all’epoca, era festa nazionale.

Sono le cinque.
Nel sonno cercano di entrare voci.
Di fuori… dà di fuori… cos’è che è di fuori?
Io. Io sono già fuori del letto quando concretizzo: l’Arno sta straripando.
Come? Dove? Forse alla Carraia o agli Uffizi… sono le frasi smozzicate che intercorrono tra mio padre e mio zio che sta al piano terra. Venite giù, l’acqua corre per la strada… Marcello è corso per via dei Leoni… ora torna… portiamo su la roba…
Poco dopo siamo in giardino, fuori della porta già ci saranno dieci centimetri d’acqua, limacciosa e già piena di piccoli detriti.
Non ci sono suoni, solo un mugghio lontano ed un cielo grigio di pioggia.
Cominciamo a portare su per le scale quello che è possibile, mobilia, indumenti… tutto questo non ha senso… com’è possibile che il fiume stia straripando? Da sempre siamo abituati a vedere le piene d’Arno o magari a sentire al Bollettino Toscano che qua e là le acque hanno invaso questo o quel campo, ma noi siamo in città… com’è possibile che nessuno abbia detto nulla? E che non si senta una sirena… i pompieri dovrebbero già essere al lavoro… ma che sta succedendo?
Torna mio cugino, faccia scura, bagnato sino all’inguine: non si passa, l’acqua esce dai parapetti, via dei Neri è già un torrente in piena commenta, mentre tenta il salvataggio di una poltroncina da camera.
L’acqua è salita velocemente, filtrando dalla porta d’ingresso del giardino ha gia inondato il porticato che è più basso… abbiamo messo delle panche della chiesa e le utilizziamo come passerella.
Sono le sei e trenta circa. Gli altri inquilini del caseggiato sono tutti alla finestra. Improvvisamente la pressione dell’acqua vince la resistenza del portoncino… è uno schianto assurdo in questo silenzio ovattato, il ruggito di una fiera… diciassette metri è la lunghezza del giardino… in fondo appare un muro d’acqua marrone… rimango con la gola strozzata… c’è mio padre ancora nella casa… urlo… mi viene da vomitare, mentre lo vedo saltare tre secondi prima che l’acqua passi repentinamente da venticinque centimetri ad un metro.
Siamo tutti ammassati sulla prima rampa di scale… ma come è possibile… questo mostro si sta mangiando gli scalini ogni cinque, dieci secondi.
Dopo mezzora siamo già al primo piano.
Ora la strada per arrivare al nostro appartamento è tagliata per tutti gli altri inquilini.
Il giardino ribolle.
Le piante in vaso sono scomparse, rimangono gli alberi.
Qualcuno comincia a piangere… si sentono i primi lamenti, lontani, più increduli che terrorizzati.
Siamo affacciati alle finestre della biblioteca del primo piano, un muro ci divide dagli altri appartamenti. Di là ci sono tre persone anziane.
Non sappiamo che fare, gli attrezzi da lavoro di mio padre a quest’ora sono un bel pezzo sott’acqua.
Improvvisamente un altro schianto, più lamentoso, come di metallo piegato, contorto, schiacciato da un peso incredibile.
E’ saltata la cisterna del gasolio, riempita giusto tre giorni fa.
Dalle cantine inizia a fuoriuscire una macchia nera, unta, densa come colore ad olio.
Nero su marrone, in ghirigori sempre più ampi… e questo freddo che ci prende ai piedi ed alla gola.
Il rombo è aumentato, l’acqua sale senza posa.
I vecchi pregano e piangono, per me è uno spettacolo terrificante: questi ci affogano sotto gli occhi, ma i grandi che fanno?
Tutti dobbiamo fare qualcosa… babbo che si fa?
Ho un mazzuolo -risponde- in quella cassa c’è una baionetta -cimelio dell’ultima guerra- in casa ci sono i cacciaviti grossi, valli a prendere, corri!
Dai, dai, svelto che bisogna sfondare questo cazzo di parete!
Questo suo pronunciare quella parola, così forte, così aspra, aumenta il mio panico, se perde la calma lui, lui che si perita a dire stupido, che potrò fare io?
Si comincia, con foga, con paura, senza metodo.
Aggrediamo il muro con disperazione.
Viene giù l’intonaco e poi appaiono i mattoni, se Dio vuole sono foratoni murati per ritto; ed allora si sfonda più che forare, ci diamo il cambio con il mazzuolo, la baionetta serve a poco.
Abbiamo aperto uno spiraglio, ma non si vede la luce, si sentono le voci, ma niente luce.
Un armadio, siamo proprio fortunati, ci mancava questa, oltre al muro c’è un armadio a separarci dai coinquilini e l’acqua è già al pianerottolo.
Si batte, s’impreca, mia zia piange, io ho mal di stomaco. Altro che esami! Qui si muore come nei film, anzi peggio che nei film.
Mi tremano le mani, anzi tremo tutto.
Abbiamo aperto un pertugio… basterà? Ce la faranno? Devono farcela, ora devono farcela.
Passano, passano, mezzi morti di paura, ma passano.
Portateli su, dategli delle coperte, dategli da bere.
Come si fa a consolare chi sta per perdere tutto?
Dobbiamo arretrare, l’acqua ci bagna le scarpe.
Guardo i libri della biblioteca: Bibbie del settecento, trattati filosofici del secolo scorso… le ritroveremo? Come li ritroveremo? E’ la prima volta che li vedo veramente, sino ad adesso facevano parte del mio mondo consueto, accessori dei miei obbligatori corsi teologici, delle mie “scuole domenicali”. Ora mi sembrano animali che si divincolano dietro i vetri della libreria: sanno di dover morire e non capiscono come noi non gli andiamo incontro.
Siamo al gradino più basso dell’ultima rampa di scale.
Noi in quel momento non lo possiamo immaginare, ma quello sarà il record raggiunto dal fiume.
Saliamo in casa e nell’assurdità della cosa iniziamo a sistemare le scale sul tetto per salire ai tetti superiori. Siamo a più di dieci metri, ma oramai la realtà si è incrinata e non ci sono più barriere ad arginare la paura.
Ora giungono distintamente, e fanno accapponare la pelle, le grida di chi sta due numeri civici più in basso verso S.Croce, case poco elevate e senza abbaini. Uomini e donne si salveranno, ma quando verranno ripescati saranno quasi del tutto assiderati.
L’acqua è un manto nero.
Il cielo è una cappa grigia.
La cancellata è stata sommersa, ora davanti a noi è soltanto un grande spiazzale nero.
Passano le auto trascinate come fuscelli, alberi, suppellettili.
Improvviso il suono della campana del Bargello, quella che si era sentita soltanto per l’entrata in guerra.
Un suono sconvolgente; la campana, fessa da un lato, al deng risponde con un dooon cupo e prolungato.
Nel cielo ancora non si è visto un elicottero, siamo soli, abbandonati in mezzo a questo cataclisma e le nostre vite non saranno mai più le stesse.
Oggi siamo morti, morti anche se sopravviveremo.
Firenze è morta e come per il Vajont o per il Polesine, tanti di noi oggi rimarranno orfani dei padri o della loro gioventù.
Oggi siamo tutti un po’ più deboli ed un po’ più vecchi.
Siamo sul tetto, quando vediamo arrivare un canotto microscopico con un vigile del fuoco. Urla per vincere il fragore della corrente… capiamo che chiede se abbiamo bisogno d’aiuto e nel frattempo si avvicina pericolosamente alle punte di lancia della cancellata, sommerse da poco più di dieci centimetri d’acqua.
Via… vattene… si fora il canotto… non capisce, anzi si avvicina per comprendere meglio.
Ci sgoliamo… va via… va via… hanno bisogno all’angolo, noi no…
Finalmente si lascia trasportare dalla corrente e scompare dal nostro orizzonte.
Passa un’Ape capovolta e non lo travolge per una manciata di secondi.
E’ passata l’ora di pranzo e quella della merenda.
Che parole strane oggi.
E’ buio, tutto è buio.
I telefoni si sono ammutoliti sin dalla prima mattina.
Forse l’acqua non sale più.
Un elicottero volteggia sulle nostre teste, sono le quattro del pomeriggio.
Salgo e scendo le scale per andare a controllare l’avanzata del fiume. Mi casca la pila nell’acqua, mio padre mi farà una sfuriata, infilo il braccio in quella melma nera e maleodorante: è fredda come mai ho sentito l’acqua fredda.
Il livello è stabile, anzi inizia a decrescere, forse stanotte riusciremo a chiudere un occhio.
Nel buio, alla luce delle candele ci accampiamo.
Domattina riusciremo a ricominciare? E Firenze come sarà?
Ed il magazzino del babbo, il bar dove lavora mamma ed il mio mondo esisteranno ancora?

Il giorno dopo è come il giorno prima, ma non c’è più l’acqua, c’è il fango… tanto fango.
Fine come limo, sporco come la notte, segnerà le facciate delle case per anni, spesso per un intero decennio. Segnerà e sporcherà anche tutti noi, che torneremo a lavarci adeguatamente i corpi soltanto in estate, ma che non smacchieremo mai più la nostra anima.
Proviamo a scendere, ma non è facile.
Le scale sono ricoperte di mota, lurida e scivolosa.
Puliamo alla bene e meglio mentre scendiamo.
Il giardino non esiste più.
Solo due alberi sono ancora lì, neri come la pece, agonizzanti.
Abbiamo un solo paio di stivali e spalare questa melma appare impossibile senza attrezzi. Fuori ancora non si muove niente.
Nel cielo tornano a volare gli elicotteri militari. Ci sembra un ronzio fastidioso ed inutile.
Abbiamo già sete. Siamo tanti in casa mia ed abbiamo soltanto due bottiglie d’acqua minerale.
Sembra impossibile, ma siamo già precipitati in piena preistoria.
Rimarremo poi per mesi senza acqua corrente.
E da quel giorno Firenze berrà soltanto minerale.
Durante quella lunga giornata circolarono soltanto i mezzi anfibi dell’esercito e così fu il giorno di poi.
Il terzo giorno, come nostro Signore, provammo a resuscitare e seppure con non poche difficoltà, cominciammo a farci un’idea della realtà.
La Firenze del tre novembre non esisteva più.
Non esistevano più neppure i fiorentini che quella città avevano vissuto.
Ora c’era una massa cenciosa, sporca, disperata che iniziava a cercare di recuperare le parti disperse della propria vita. Ma quegli uomini e quelle donne inzaccherati, infagottati in panni dai colori oramai improbabili, che camminavano come ciechi cercando di non cadere, fecero vedere al mondo -e se questa è retorica, retorica sia- che si può riconquistarsi il diritto a vivere, anche quando tutto sembra destinato a perdersi.
Non dico che non piangemmo, al contrario lo facemmo spesso e con rabbia, ma la voglia d’essere più forti di questo maledetto destino ci fece imbracciare pale e picconi e bestemmiando, come nessun altro al mondo sa fare, decidemmo che volevamo tornare ad essere esseri umani.
Il mondo ce lo avrebbe riconosciuto anni dopo, quando per noi oramai questo non significava più niente.
Anche io misi fuori la testa dalla tana.
In Piazza S.Firenze arrivavano le autobotti dell’acqua potabile e si doveva andare a fare la fila per riempire le taniche. In Palazzo Vecchio iniziò la distribuzione della pasta, del pane e della farina.
Tutte queste incombenze spettarono a me.
Il ricordo è quello di un mondo crepuscolare.
Novembre già di per sé non si distingue per irraggiamento solare, figurarsi poi che luce potevamo avere in quelle giornate piovose, in assenza di corrente elettrica, con le strade già alle cinque del pomeriggio illuminate dalle fotoelettriche dell’esercito, almeno nel perimetro adiacente a piazza della Signoria.
Quei giorni, nel ricordo, sono tutti uguali nella loro diversità.
Più mi allontanavo da casa più si rinnovava la scoperta della nostra rabbiosa desolazione.
Dalla periferia risparmiata cominciarono ad affluire verso le zone maggiormente colpite i parenti, che recavano viveri e generi di prima necessità. A darci un aiuto arrivarono da noi sin da Udine, dove avevamo lontani parenti.
Sui loro volti angosciati riconobbi la nostra disperazione, come anni più tardi, era il 1976, sarebbe successo a noi visitando loro a Gemona o Tolmezzo, rase al suolo dal terremoto.
Firenze era stata seviziata, stuprata, violentata ancora una volta come nel passato era già accaduto.
Questa non era più, però, la città medioevale o quella rinascimentale, questo era il museo a cielo aperto che la moderna società contemporanea mostrava orgogliosa ai turisti di tutto il mondo. E da tutto l’emisfero giunsero quelli che sarebbero stati definiti gli Angeli del Fango, migliaia di giovani, italiani e non, che si prodigarono per mesi, cercando di salvare quante più opere d’arte fosse possibile.
Ma Firenze non è soltanto gli Uffizi, S.Croce, le chiese ed i musei, ma anche i grandi mercati della carne, della frutta e verdura, le mille botteghe di alimentari che ancora allora esistevano. Quei luoghi iniziarono ben presto ad ammorbare l’aria: a S.Lorenzo l’esercito usava i lanciafiamme, tonnellate di carne si andavano putrefacendo e quell’odore nauseabondo si legava intimamente a quello dei fanghi che, lentamente, andavano asciugandosi.
Dapprima giravamo con le mascherine distribuite dalle Forze armate… poi ci abituammo.
Mio padre tornò ad essere un reduce di guerra: la violenza delle acque aveva travolto il magazzino ed il contenuto era pressoché inservibile. Mia madre iniziò a ripulire il grande bar e molte confezioni finirono sulla nostra tavola… d’altra parte niente bar, niente salario.
Lo Stato, dopo non poche titubanze, avviò la macchina degli aiuti.
A poco a poco le cose così iniziarono a migliorare e l’umore della gente cominciò a risalire la scala dei valori.

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