Se la vita fosse un gambero..
Quello che mi ha complicato la vita sin dall’inizio, è stata la voglia di giovinezza di mio padre.
Più io m’intestardivo a voler essere meno ingenuo, più lui mi spiazzava con la concretezza della sua crescita da gambero.
Mio padre è poi morto a settantaquattro anni, ma sino all’ultimo è rimasto convinto di essere stato derubato, una seconda volta, di ciò che gli spettava: la sua ritrovata gioventù, adesso rapinata da un dio minore.
La prima volta ci aveva pensato il Domineddio vero, colui che aveva retto l’Italia per venti anni tra il tripudio delle genti, che lo aveva mandato, ragazzo tra i ragazzi, a combattere una guerra fortunatamente già persa.
Lui che ancora faceva i bagni in Arno, che si sudava il pane quotidiano nella bottega di carbonaio del nonno, lui che ancora non aveva assaporato il meglio della vita, si ritrovò catapultato su quel lembo di deserto africano che avrebbe significato l’inizio di una nuova vita.
Venti giorni dopo lo sbarco -lo stomaco ancora ballava- i blindati inglesi li avevano gettati contro un costone.
Sotto il mare schiumava.
Il Capo Manipolo li voleva avanti, all’attacco all’arma bianca, a difendere l’onore dell’Impero, a morire da italiani. Urlava di morire da fascisti come sino allora avevano vissuto.
Berci più tristi che stupidi.
Due coscritti avevano gettato immediatamente a terra il “91”, il rimanente della compagnia subito li imitò, travolgente torrente di resa.
Le armi non avevano fatto in tempo a cadere tutte che già le mitragliatrici pesanti dei carri erano dinanzi a loro, tanto nitide da sembrare trucchi di Cinecittà.
Il graduato della milizia ancora sbraitava, li voleva fucilati per tradimento, lì, subito, lui come giudice, plotone d’esecuzione, essenza stessa della giustizia fascista.
Uno di Venezia, colpendolo alle spalle, lo stese silenziosamente. Un gesto fatto senza paura e senza odio. Lo stese soltanto perché quello che stava dicendo non aveva senso e quello che avrebbe voluto fare li metteva tutti in pericolo.
Poi tutti in colonna, migliaia di ragazzi in calzoni corti con le facce da vecchi, le mani sopra la testa, pensando a quello che si doveva portare ed a quello che si doveva lasciare: giberne via, l’elmetto no, perché dentro ci puoi anche mangiare.
Sette anni: quel giorno costò sette anni di campo, 2555 giorni di sopravvivenza in apnea, vedendo la malattia degli altri, soffrendo la propria fame e la propria sete.
Dei cinque amici che erano partiti ne tornarono poi soltanto tre, uno con il sole d’Africa per sempre nella mente.
Al ritorno i posti da eroe erano già stati tutti assegnati.
Per loro niente lavoro, niente fidanzate -nel frattempo sposate o decedute- in loro nessuna voglia di tornare ad essere ancora prigionieri, questa volta dei cantieri o delle fabbriche dei nuovi padroni.
Ecco allora che si è costretti ad inventarsi un’attività da commercialista, da pittore o da elettricista, cosa normale per lui che era stato anni nel Genio ad inondare il cielo della luce delle fotoelettriche.
E poi il primo lavoro, in coppia con un socio più anziano: i fanali stradali da cambiare per conto del nuovo Comune. Quelli che alla luce del sole si riparavano e che di notte si facevano a pezzi… per farlo durare, quel benedetto lavoro.
Ed accanto al bisogno ecco nascere nuove pressioni, i nuovi inutili bisogni animati da un boom economico incalzante.
Così invecchiavano tutti i nostri genitori.
Ma lui, mio padre, si aggrappava invece a quel vuoto giovanile da riempire e lo faceva con caparbietà, con fede e fame di giustizia. E soprattutto con un’energia inconcepibile per noi ragazzi degli anni cinquanta, noi che ancora non avevamo sofferto niente.
E così dopo otto, nove ore di scaleo, mazzuolo e scalpello aveva sempre il fiato e la voglia per dirmi: - Sandro, vieni che ti straccio a ping pong. Una partita secca e via! -
Questa del tennis tavolo era una reminescenza dello Zonderwater Block, campo di lavoro 316, Inghilterra del nord. Dietro a quel filo spinato finalmente si mangiava a sufficienza, si fumava e rimaneva anche il tempo per diventare campioni di Blocco o, addirittura, di Campo.
A me lui non è mai riuscito ad insegnare niente di più dei rudimenti di base, perché tra noi si era creata una situazione strana, identica a quella che da ragazzi ci vedeva nascondere vicendevolmente i colpi migliori all’amico-avversario. Perdevo così quasi sempre e quando cominciai a vincere non fui per niente felice; soffrivo per lui che non vedeva più i colpi o che respirava a fatica soltanto dopo pochi scambi.
Gli chiesi così di insegnare le basi ai miei figli ed io decisi che con lui non avrei mai più giocato.
L’alluvione del ’66 la vivemmo insieme, uniti come non mai.
Io quattordicenne con la testa fra le nuvole, lui aspirante piccolo borghese con in testa il cinema estivo sull’Arno (che in quelle ore già non esisteva più), la Fiorentina (poi da scudetto), le rate da pagare (recente opportunità/trappola) per il nuovo frigorifero e la nuova televisione.
Quell’acqua nera ed amara riportò tutti noi fiorentini sulla linea di partenza e la mia famiglia non fece eccezione. Mesi bui: il magazzino di mio padre disintegrato dalla furia dell’Arno, la casa piena di conoscenti sfollati, pochi soldi, tanta pasta con la margarina.
In quei giorni io fui costretto a crescere, perdendo terreno sulla gioventù incalzante del genitore.
Poi arrivarono gli anni settanta, e prima che io entrassi in L.C. lui riuscì a bruciarmi sul tempo aderendo al nuovo PSIUP. Lui cristiano di base, socialista, luterano a favore di Don Mazzi, viaggiava con i jeans a zampa d’elefante ed il borsello in mano. Io iniziavo, invece, a vestirmi paramilitare: l’eskimo, gli anfibi ed i maglioni rossi fatti a mano.
A lui erano bastate le pezze ai piedi degli anni quaranta, si comprava ora vestiti blu e giacche grigie da cassiere di banca.
Io a gridare contro quelli che oggi sono rispettabilissimi senatori della maggioranza, lui dietro ai banchetti della “Bibbia per tutti”, a parlare d’uguaglianza e di libertà per i lavoratori. Viveva in simbiosi con il suo Dio operaio, un Creatore che cavalcava i nuovi tempi, insomma un Eterno di sinistra, che si era preso una pausa di riflessione e che, temporaneamente, non benediceva né questa né quella guerra.
Ero figlio d’operai e quindi la mia massima aspirazione non poteva che essere l’Istituto Tecnico, a maggior ragione in quel tempo in cui cominciava ad imperversare la moda per l’elettronica, quella delle valvole catodiche beninteso, mica quella dei micro circuiti o delle fibre ottiche. Roba che il PC era cosa da americani e chi si curvava sulle tastiere guardava schermi da quindici pollici rigorosamente in bianco e nero, con su numeri e soltanto numeri. All’istituto non ho mai imparato niente ed ancora oggi mi chiedo quale scorciatoia il destino generosamente mi regalò per arrivare alla sospirata maturità.
All’Istituto ho creduto di imparare la politica, quella che già si respirava nell’aria, tra i torni delle fabbriche come nelle aule delle Università. Quella che emergeva tra le volute di fumo nelle spossanti discussioni su cosa era veramente di sinistra, su come -e se- la prassi dovesse precedere la teoria o viceversa. Anche di politica, in seguito, ho però capito che non ne sapevo e non ne capivo niente.
Il mondo, per altro, cominciava ad apparirmi a colori: il verde dei giardini di Boboli a Palazzo Pitti, dove le ragazze ci aspettavano nei giorni consacrati alla forca o il nero delle cantine, che con fatica avevamo liberato dai fanghi d’Arno per farne le nostre alcove, fredde e maleodoranti di muffa, ma eccitanti perché solamente nostre; il grigio verde delle divise dei celerini, che c’incendiavano gli occhi con i lacrimogeni e c’inzuppavano i vestiti con gli idranti; il rosso ed il nero delle opposte bandiere o il grigio che arrancava per le tempie di mio padre, preoccupato ora di vedermi sbandato in quei giorni sbandati.
I miei hanno sempre cercato di farmi capire, non mi hanno mai proibito; quando, unica volta, mio padre ci provò, ci scontrammo con tale violenza che il solco tracciato non fu mai più riempito. Era un altro passaggio verso la non giovinezza, il salto doveroso di quel confine che ai genitori lascia il volto allibito ed il fiele in bocca ed a noi ragazzi le lacrime negli occhi per i sensi di colpa. Ero, ed ero stato, un figlio unico felice e, dunque, non ero troppo maturato.
Ma questo, allora, non lo sapevo.
Iniziarono a farmelo capire l’Arma, che mi portò in caserma ed il professore di servomeccanismi, che con enorme soddisfazione si adoperò perché la mia bocciatura alla maturità fosse la più amara possibile. Prima di dargli questa piccola soddisfazione da insegnante deluso ed impaurito dai tempi, rinunciai spontaneamente alla tenzone.
Credevo di aver fatto un gesto non dico eroico, ma almeno importante: fu la prima notevole cazzata della mia vita.
Molti mesi dopo ereditai il mio primo scooter, una Lambretta che mio padre aveva sostituito con una Vespa 175 ultimo modello. Era stato il premio per la mia maturità bis, conquistata con buoni voti dopo un anno di pentimenti e costrizioni, un anno importante in cui avevo trovato la politica vera, abbandonando le pericolose leggerezze che nel nostro mondo stavano virando verso la tragedia individuale degli anni del terrorismo.
Avevo la ragazza già da un bel po’, quando la Patria reclamò i propri diritti: fui tanto raccomandato da finire a Cecchignola, il luogo più brutto che avessi mai conosciuto e che, ancor oggi, considero uno dei posti ideali per cadere in depressione.
Di Roma di allora ricordo soltanto il Notturno di Termini, dove andavamo a fare l’agognata doccia calda e la trattoria Il Merlo, persa nell’allora campagna romana, dove le parolacce in romanesco di un merlo indiano addestrato, facevano da sottofondo alle nostre bevute, utili, se non altro, ad estraniarci momentaneamente da quelle divise grigioverdi che a Cecchignola sono la tua vita dalla sveglia al silenzio.
I miei venivano a trovarmi, mio padre mi prendeva sottobraccio, io lo allontanavo con la scusa della divisa. Avrei voluto, dovuto, stringerlo e baciarlo, ma la mia e la sua età non ce lo permettevano.
Ho cercato poi di recuperare, ma i punti persi non li ho mai più riottenuti.
Tornato dal militare subito il lavoro. Gli ottimistici anni settanta, gemellati alla buona ventura, mi regalarono uno smagliante camice bianco ed un lavoro da commesso. Il destino mi fece ancora una volta abile ed arruolato, questa volta per rendere la vista ai ricchi borghesi, che non trovavano di meglio, tra la prova di un Saint Loraint o di un Valentino, che sputare sui loro operai; su quei lavoratori che ogni giorno apparivano meno remissivi ed a volte, cosa inammissibile, addirittura violenti. Ascoltavo e soffrivo, sempre meno disposto ad abbracciare qualsiasi compromesso, ma impossibilitato a rinunciare alla nuova indipendenza che il salario mi forniva.
Smessa la divisa drop dell’esercito, tolta finalmente la camicia azzurra e la cravatta regimental, correvo a fare il ragazzo di bottega per la mia nuova passione politica.
Ecco allora i volantinaggi sulle tante fabbriche adesso scomparse, spazzate via dall’onda della concorrenza globale e trasformate in garage e supermercati.
Oppure la diffusione della stampa negli opifici della periferia industriale di Firenze, tra sguardi sospettosi ed impauriti. Con noi che parlavamo ai sordi, ad indifferenti tute blu, che ci guardavano quasi neppure fossimo antesignani dei Testimoni di Geova dei giorni nostri.
Quegli anni ci misero tutti alla prova; a chi faceva ed a chi subiva la politica.
A me, che imparavo le regole della duratura lotta di classe ed a mio padre che non riusciva a capire il mio nuovo cinismo, la nuova determinata, serena politica, tanto diversa dai gridati sentimenti di ieri.
Ancora nuovi, ancora sconosciuti: uno dinanzi all’altro iniziavamo un periodo d’allontanamento. Ci saremmo ritrovati soltanto molti anni dopo, lavorando alla mia nuova casa, nella mia nuova città.
Gli anni ottanta stravolsero la mia vita sentimentale: mi ero scoperto, da un giorno all’altro, diverso nel sentire e nel soffrire. E dunque nell’amare. Lui non capiva, ed in questo eravamo identici. Anni di presunta costruzione esistenziale erano accantonati dalla passione.
Ero sconosciuto a me stesso e finalmente molto più vecchio.
Sullo schermo della moviola su cui venivano proiettate le nostre vite, stavamo per ricongiungerci, fotogramma dopo fotogramma, con lui che arretrava ed io che avanzavo.
Stava per nascere il mio primo figlio. In mio padre la speranza dell’Immortalità trovava così un supporto meno labile della fede redentrice. Un altro maschio della specie avrebbe, infatti, dato seguito alla nostra discendenza, riproducendo il suo Dna.
Ma la fatica dell’allevamento della prole, per me e la mia compagna, cresceva a mano a mano che l’emozione per la novità si attenuava. Così la politica si allontanava, non tanto perché fossero gli anni dello sventurato, quanto provvidenziale riflusso, quanto per mancanza di tempo, consumato tra il nuovo lavoro da pendolare in ferrovia e l’accudienza all’infanzia.
Nel frattempo mio padre si era ritrovato da solo dopo una vita da socio e poi qualche malanno iniziava a manifestarsi. Fu così eseguita la prima delle due operazioni poi subite e tutto sembrava essere tornato alla quasi normalità.
Dopo qualche anno, leggendo le aride note di un’amniocentesi, seppi di essere di nuovo genitore, questa volta di una “femmina sana”. La casa in affitto, confortevole, ma di pochi metri quadri, parve diventare improvvisamente assolutamente inadeguata. La scelta ricadde allora sulla città dove già da tempo lavoravo: casa da ristrutturare, ma a prezzo equo.
Abbiamo così lavorato insieme, io e lui, per quasi un anno, con la fretta dettata da una pancia che ingrossava, con la voglia nuova di parlarsi finalmente alla pari.
Comunicavamo ed era un’immensa novità; ci capivamo ed era una trasformazione notevole. Più mia che sua.
Ero diventato un padre, un marito, un lavoratore della morente aristocrazia operaia.
I segni anticipatori della malattia, la Sua Malattia, erano già apparsi: feroci e deprimenti.
La seconda operazione, vissuta con fede incrollabile, gli regalò altri cinque anni di vita. Di una vita qualitativamente più che accettabile. Ho passato quel periodo eliminando la parola metastasi dal mio vocabolario. Ora più che mai avevo bisogno di lui, avevo urgenza di confrontarmi con la sua matura giovinezza, per farmi aiutare a recuperare la mia incompiuta crescita.
Anche negli anni della sua sopravvivenza non ho dato quello che dovevo e non ho ottenuto quello che potevo: è uno dei pochi rimpianti della mia vita.
Il giorno della sua morte io non ero là.
Quando sono arrivato avevo già pianto, unica testimone la mia compagna, a cui avevo confessato tutta la mia pena.
Davanti a lui che già non c’era più, ma che ancora sorrideva, ho iniziato l’ultima parte del percorso che ognuno di noi compie nell’età matura. Ho iniziato così a distaccarmi da me stesso, dal me proiettato in lui. Ho cominciato a rimuovere le sicurezze che apparentemente lui mi dava, per ritrovarle, finalmente identiche, in me, nuovo patrimonio del dolore.
Solo allora ho capito che non è facile accettare il nostro evolvere, come non è facile chiudere una parte così importante della nostra storia senza lasciarsi alle spalle rimpianti e nostalgie.
E’ un’operazione che non termina mai, che replica costantemente se stessa, una lieve sofferenza che ci è quotidiana compagna e che ci aiuta ad andare avanti, centimetro dopo centimetro, verso la naturale chiusa della vita.
Soltanto oggi, guardando le fotografie di mio padre, sento la sua vera essenza, m’immagino di compenetrare la sua anima terrena, i suoi sentimenti, avverto con pienezza il suo essere in me.
Oggi, dopo anni d’assenza, lui è finalmente, pienamente con me: nei miei pensieri, nel mio sentire, negli occhi dei miei figli.
Più io m’intestardivo a voler essere meno ingenuo, più lui mi spiazzava con la concretezza della sua crescita da gambero.
Mio padre è poi morto a settantaquattro anni, ma sino all’ultimo è rimasto convinto di essere stato derubato, una seconda volta, di ciò che gli spettava: la sua ritrovata gioventù, adesso rapinata da un dio minore.
La prima volta ci aveva pensato il Domineddio vero, colui che aveva retto l’Italia per venti anni tra il tripudio delle genti, che lo aveva mandato, ragazzo tra i ragazzi, a combattere una guerra fortunatamente già persa.
Lui che ancora faceva i bagni in Arno, che si sudava il pane quotidiano nella bottega di carbonaio del nonno, lui che ancora non aveva assaporato il meglio della vita, si ritrovò catapultato su quel lembo di deserto africano che avrebbe significato l’inizio di una nuova vita.
Venti giorni dopo lo sbarco -lo stomaco ancora ballava- i blindati inglesi li avevano gettati contro un costone.
Sotto il mare schiumava.
Il Capo Manipolo li voleva avanti, all’attacco all’arma bianca, a difendere l’onore dell’Impero, a morire da italiani. Urlava di morire da fascisti come sino allora avevano vissuto.
Berci più tristi che stupidi.
Due coscritti avevano gettato immediatamente a terra il “91”, il rimanente della compagnia subito li imitò, travolgente torrente di resa.
Le armi non avevano fatto in tempo a cadere tutte che già le mitragliatrici pesanti dei carri erano dinanzi a loro, tanto nitide da sembrare trucchi di Cinecittà.
Il graduato della milizia ancora sbraitava, li voleva fucilati per tradimento, lì, subito, lui come giudice, plotone d’esecuzione, essenza stessa della giustizia fascista.
Uno di Venezia, colpendolo alle spalle, lo stese silenziosamente. Un gesto fatto senza paura e senza odio. Lo stese soltanto perché quello che stava dicendo non aveva senso e quello che avrebbe voluto fare li metteva tutti in pericolo.
Poi tutti in colonna, migliaia di ragazzi in calzoni corti con le facce da vecchi, le mani sopra la testa, pensando a quello che si doveva portare ed a quello che si doveva lasciare: giberne via, l’elmetto no, perché dentro ci puoi anche mangiare.
Sette anni: quel giorno costò sette anni di campo, 2555 giorni di sopravvivenza in apnea, vedendo la malattia degli altri, soffrendo la propria fame e la propria sete.
Dei cinque amici che erano partiti ne tornarono poi soltanto tre, uno con il sole d’Africa per sempre nella mente.
Al ritorno i posti da eroe erano già stati tutti assegnati.
Per loro niente lavoro, niente fidanzate -nel frattempo sposate o decedute- in loro nessuna voglia di tornare ad essere ancora prigionieri, questa volta dei cantieri o delle fabbriche dei nuovi padroni.
Ecco allora che si è costretti ad inventarsi un’attività da commercialista, da pittore o da elettricista, cosa normale per lui che era stato anni nel Genio ad inondare il cielo della luce delle fotoelettriche.
E poi il primo lavoro, in coppia con un socio più anziano: i fanali stradali da cambiare per conto del nuovo Comune. Quelli che alla luce del sole si riparavano e che di notte si facevano a pezzi… per farlo durare, quel benedetto lavoro.
Ed accanto al bisogno ecco nascere nuove pressioni, i nuovi inutili bisogni animati da un boom economico incalzante.
Così invecchiavano tutti i nostri genitori.
Ma lui, mio padre, si aggrappava invece a quel vuoto giovanile da riempire e lo faceva con caparbietà, con fede e fame di giustizia. E soprattutto con un’energia inconcepibile per noi ragazzi degli anni cinquanta, noi che ancora non avevamo sofferto niente.
E così dopo otto, nove ore di scaleo, mazzuolo e scalpello aveva sempre il fiato e la voglia per dirmi: - Sandro, vieni che ti straccio a ping pong. Una partita secca e via! -
Questa del tennis tavolo era una reminescenza dello Zonderwater Block, campo di lavoro 316, Inghilterra del nord. Dietro a quel filo spinato finalmente si mangiava a sufficienza, si fumava e rimaneva anche il tempo per diventare campioni di Blocco o, addirittura, di Campo.
A me lui non è mai riuscito ad insegnare niente di più dei rudimenti di base, perché tra noi si era creata una situazione strana, identica a quella che da ragazzi ci vedeva nascondere vicendevolmente i colpi migliori all’amico-avversario. Perdevo così quasi sempre e quando cominciai a vincere non fui per niente felice; soffrivo per lui che non vedeva più i colpi o che respirava a fatica soltanto dopo pochi scambi.
Gli chiesi così di insegnare le basi ai miei figli ed io decisi che con lui non avrei mai più giocato.
L’alluvione del ’66 la vivemmo insieme, uniti come non mai.
Io quattordicenne con la testa fra le nuvole, lui aspirante piccolo borghese con in testa il cinema estivo sull’Arno (che in quelle ore già non esisteva più), la Fiorentina (poi da scudetto), le rate da pagare (recente opportunità/trappola) per il nuovo frigorifero e la nuova televisione.
Quell’acqua nera ed amara riportò tutti noi fiorentini sulla linea di partenza e la mia famiglia non fece eccezione. Mesi bui: il magazzino di mio padre disintegrato dalla furia dell’Arno, la casa piena di conoscenti sfollati, pochi soldi, tanta pasta con la margarina.
In quei giorni io fui costretto a crescere, perdendo terreno sulla gioventù incalzante del genitore.
Poi arrivarono gli anni settanta, e prima che io entrassi in L.C. lui riuscì a bruciarmi sul tempo aderendo al nuovo PSIUP. Lui cristiano di base, socialista, luterano a favore di Don Mazzi, viaggiava con i jeans a zampa d’elefante ed il borsello in mano. Io iniziavo, invece, a vestirmi paramilitare: l’eskimo, gli anfibi ed i maglioni rossi fatti a mano.
A lui erano bastate le pezze ai piedi degli anni quaranta, si comprava ora vestiti blu e giacche grigie da cassiere di banca.
Io a gridare contro quelli che oggi sono rispettabilissimi senatori della maggioranza, lui dietro ai banchetti della “Bibbia per tutti”, a parlare d’uguaglianza e di libertà per i lavoratori. Viveva in simbiosi con il suo Dio operaio, un Creatore che cavalcava i nuovi tempi, insomma un Eterno di sinistra, che si era preso una pausa di riflessione e che, temporaneamente, non benediceva né questa né quella guerra.
Ero figlio d’operai e quindi la mia massima aspirazione non poteva che essere l’Istituto Tecnico, a maggior ragione in quel tempo in cui cominciava ad imperversare la moda per l’elettronica, quella delle valvole catodiche beninteso, mica quella dei micro circuiti o delle fibre ottiche. Roba che il PC era cosa da americani e chi si curvava sulle tastiere guardava schermi da quindici pollici rigorosamente in bianco e nero, con su numeri e soltanto numeri. All’istituto non ho mai imparato niente ed ancora oggi mi chiedo quale scorciatoia il destino generosamente mi regalò per arrivare alla sospirata maturità.
All’Istituto ho creduto di imparare la politica, quella che già si respirava nell’aria, tra i torni delle fabbriche come nelle aule delle Università. Quella che emergeva tra le volute di fumo nelle spossanti discussioni su cosa era veramente di sinistra, su come -e se- la prassi dovesse precedere la teoria o viceversa. Anche di politica, in seguito, ho però capito che non ne sapevo e non ne capivo niente.
Il mondo, per altro, cominciava ad apparirmi a colori: il verde dei giardini di Boboli a Palazzo Pitti, dove le ragazze ci aspettavano nei giorni consacrati alla forca o il nero delle cantine, che con fatica avevamo liberato dai fanghi d’Arno per farne le nostre alcove, fredde e maleodoranti di muffa, ma eccitanti perché solamente nostre; il grigio verde delle divise dei celerini, che c’incendiavano gli occhi con i lacrimogeni e c’inzuppavano i vestiti con gli idranti; il rosso ed il nero delle opposte bandiere o il grigio che arrancava per le tempie di mio padre, preoccupato ora di vedermi sbandato in quei giorni sbandati.
I miei hanno sempre cercato di farmi capire, non mi hanno mai proibito; quando, unica volta, mio padre ci provò, ci scontrammo con tale violenza che il solco tracciato non fu mai più riempito. Era un altro passaggio verso la non giovinezza, il salto doveroso di quel confine che ai genitori lascia il volto allibito ed il fiele in bocca ed a noi ragazzi le lacrime negli occhi per i sensi di colpa. Ero, ed ero stato, un figlio unico felice e, dunque, non ero troppo maturato.
Ma questo, allora, non lo sapevo.
Iniziarono a farmelo capire l’Arma, che mi portò in caserma ed il professore di servomeccanismi, che con enorme soddisfazione si adoperò perché la mia bocciatura alla maturità fosse la più amara possibile. Prima di dargli questa piccola soddisfazione da insegnante deluso ed impaurito dai tempi, rinunciai spontaneamente alla tenzone.
Credevo di aver fatto un gesto non dico eroico, ma almeno importante: fu la prima notevole cazzata della mia vita.
Molti mesi dopo ereditai il mio primo scooter, una Lambretta che mio padre aveva sostituito con una Vespa 175 ultimo modello. Era stato il premio per la mia maturità bis, conquistata con buoni voti dopo un anno di pentimenti e costrizioni, un anno importante in cui avevo trovato la politica vera, abbandonando le pericolose leggerezze che nel nostro mondo stavano virando verso la tragedia individuale degli anni del terrorismo.
Avevo la ragazza già da un bel po’, quando la Patria reclamò i propri diritti: fui tanto raccomandato da finire a Cecchignola, il luogo più brutto che avessi mai conosciuto e che, ancor oggi, considero uno dei posti ideali per cadere in depressione.
Di Roma di allora ricordo soltanto il Notturno di Termini, dove andavamo a fare l’agognata doccia calda e la trattoria Il Merlo, persa nell’allora campagna romana, dove le parolacce in romanesco di un merlo indiano addestrato, facevano da sottofondo alle nostre bevute, utili, se non altro, ad estraniarci momentaneamente da quelle divise grigioverdi che a Cecchignola sono la tua vita dalla sveglia al silenzio.
I miei venivano a trovarmi, mio padre mi prendeva sottobraccio, io lo allontanavo con la scusa della divisa. Avrei voluto, dovuto, stringerlo e baciarlo, ma la mia e la sua età non ce lo permettevano.
Ho cercato poi di recuperare, ma i punti persi non li ho mai più riottenuti.
Tornato dal militare subito il lavoro. Gli ottimistici anni settanta, gemellati alla buona ventura, mi regalarono uno smagliante camice bianco ed un lavoro da commesso. Il destino mi fece ancora una volta abile ed arruolato, questa volta per rendere la vista ai ricchi borghesi, che non trovavano di meglio, tra la prova di un Saint Loraint o di un Valentino, che sputare sui loro operai; su quei lavoratori che ogni giorno apparivano meno remissivi ed a volte, cosa inammissibile, addirittura violenti. Ascoltavo e soffrivo, sempre meno disposto ad abbracciare qualsiasi compromesso, ma impossibilitato a rinunciare alla nuova indipendenza che il salario mi forniva.
Smessa la divisa drop dell’esercito, tolta finalmente la camicia azzurra e la cravatta regimental, correvo a fare il ragazzo di bottega per la mia nuova passione politica.
Ecco allora i volantinaggi sulle tante fabbriche adesso scomparse, spazzate via dall’onda della concorrenza globale e trasformate in garage e supermercati.
Oppure la diffusione della stampa negli opifici della periferia industriale di Firenze, tra sguardi sospettosi ed impauriti. Con noi che parlavamo ai sordi, ad indifferenti tute blu, che ci guardavano quasi neppure fossimo antesignani dei Testimoni di Geova dei giorni nostri.
Quegli anni ci misero tutti alla prova; a chi faceva ed a chi subiva la politica.
A me, che imparavo le regole della duratura lotta di classe ed a mio padre che non riusciva a capire il mio nuovo cinismo, la nuova determinata, serena politica, tanto diversa dai gridati sentimenti di ieri.
Ancora nuovi, ancora sconosciuti: uno dinanzi all’altro iniziavamo un periodo d’allontanamento. Ci saremmo ritrovati soltanto molti anni dopo, lavorando alla mia nuova casa, nella mia nuova città.
Gli anni ottanta stravolsero la mia vita sentimentale: mi ero scoperto, da un giorno all’altro, diverso nel sentire e nel soffrire. E dunque nell’amare. Lui non capiva, ed in questo eravamo identici. Anni di presunta costruzione esistenziale erano accantonati dalla passione.
Ero sconosciuto a me stesso e finalmente molto più vecchio.
Sullo schermo della moviola su cui venivano proiettate le nostre vite, stavamo per ricongiungerci, fotogramma dopo fotogramma, con lui che arretrava ed io che avanzavo.
Stava per nascere il mio primo figlio. In mio padre la speranza dell’Immortalità trovava così un supporto meno labile della fede redentrice. Un altro maschio della specie avrebbe, infatti, dato seguito alla nostra discendenza, riproducendo il suo Dna.
Ma la fatica dell’allevamento della prole, per me e la mia compagna, cresceva a mano a mano che l’emozione per la novità si attenuava. Così la politica si allontanava, non tanto perché fossero gli anni dello sventurato, quanto provvidenziale riflusso, quanto per mancanza di tempo, consumato tra il nuovo lavoro da pendolare in ferrovia e l’accudienza all’infanzia.
Nel frattempo mio padre si era ritrovato da solo dopo una vita da socio e poi qualche malanno iniziava a manifestarsi. Fu così eseguita la prima delle due operazioni poi subite e tutto sembrava essere tornato alla quasi normalità.
Dopo qualche anno, leggendo le aride note di un’amniocentesi, seppi di essere di nuovo genitore, questa volta di una “femmina sana”. La casa in affitto, confortevole, ma di pochi metri quadri, parve diventare improvvisamente assolutamente inadeguata. La scelta ricadde allora sulla città dove già da tempo lavoravo: casa da ristrutturare, ma a prezzo equo.
Abbiamo così lavorato insieme, io e lui, per quasi un anno, con la fretta dettata da una pancia che ingrossava, con la voglia nuova di parlarsi finalmente alla pari.
Comunicavamo ed era un’immensa novità; ci capivamo ed era una trasformazione notevole. Più mia che sua.
Ero diventato un padre, un marito, un lavoratore della morente aristocrazia operaia.
I segni anticipatori della malattia, la Sua Malattia, erano già apparsi: feroci e deprimenti.
La seconda operazione, vissuta con fede incrollabile, gli regalò altri cinque anni di vita. Di una vita qualitativamente più che accettabile. Ho passato quel periodo eliminando la parola metastasi dal mio vocabolario. Ora più che mai avevo bisogno di lui, avevo urgenza di confrontarmi con la sua matura giovinezza, per farmi aiutare a recuperare la mia incompiuta crescita.
Anche negli anni della sua sopravvivenza non ho dato quello che dovevo e non ho ottenuto quello che potevo: è uno dei pochi rimpianti della mia vita.
Il giorno della sua morte io non ero là.
Quando sono arrivato avevo già pianto, unica testimone la mia compagna, a cui avevo confessato tutta la mia pena.
Davanti a lui che già non c’era più, ma che ancora sorrideva, ho iniziato l’ultima parte del percorso che ognuno di noi compie nell’età matura. Ho iniziato così a distaccarmi da me stesso, dal me proiettato in lui. Ho cominciato a rimuovere le sicurezze che apparentemente lui mi dava, per ritrovarle, finalmente identiche, in me, nuovo patrimonio del dolore.
Solo allora ho capito che non è facile accettare il nostro evolvere, come non è facile chiudere una parte così importante della nostra storia senza lasciarsi alle spalle rimpianti e nostalgie.
E’ un’operazione che non termina mai, che replica costantemente se stessa, una lieve sofferenza che ci è quotidiana compagna e che ci aiuta ad andare avanti, centimetro dopo centimetro, verso la naturale chiusa della vita.
Soltanto oggi, guardando le fotografie di mio padre, sento la sua vera essenza, m’immagino di compenetrare la sua anima terrena, i suoi sentimenti, avverto con pienezza il suo essere in me.
Oggi, dopo anni d’assenza, lui è finalmente, pienamente con me: nei miei pensieri, nel mio sentire, negli occhi dei miei figli.
Etichette: 1968, amore, analisi, autoanalisi, ricordi