Autoanalisi

Ricordare per poter comunicare.Quello che abbiamo vissuto senza pentimenti e capriole, nè in politica, nè in privato. Molto amore, molta passione ed una spruzzata di fortuna, per noi che avevamo vent'anni in quegli anni.

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martedì 19 aprile 2005

Qui giunse straripando…

Tutto l’autunno di quell’anno fu particolarmente piovoso, ottobre lo fu in maniera particolare e l’ultima settimana è poi rimasta negli annali quanto a millimetri d’acqua precipitati.
Il 4 novembre, all’epoca, era festa nazionale.

Sono le cinque.
Nel sonno cercano di entrare voci.
Di fuori… dà di fuori… cos’è che è di fuori?
Io. Io sono già fuori del letto quando concretizzo: l’Arno sta straripando.
Come? Dove? Forse alla Carraia o agli Uffizi… sono le frasi smozzicate che intercorrono tra mio padre e mio zio che sta al piano terra. Venite giù, l’acqua corre per la strada… Marcello è corso per via dei Leoni… ora torna… portiamo su la roba…
Poco dopo siamo in giardino, fuori della porta già ci saranno dieci centimetri d’acqua, limacciosa e già piena di piccoli detriti.
Non ci sono suoni, solo un mugghio lontano ed un cielo grigio di pioggia.
Cominciamo a portare su per le scale quello che è possibile, mobilia, indumenti… tutto questo non ha senso… com’è possibile che il fiume stia straripando? Da sempre siamo abituati a vedere le piene d’Arno o magari a sentire al Bollettino Toscano che qua e là le acque hanno invaso questo o quel campo, ma noi siamo in città… com’è possibile che nessuno abbia detto nulla? E che non si senta una sirena… i pompieri dovrebbero già essere al lavoro… ma che sta succedendo?
Torna mio cugino, faccia scura, bagnato sino all’inguine: non si passa, l’acqua esce dai parapetti, via dei Neri è già un torrente in piena commenta, mentre tenta il salvataggio di una poltroncina da camera.
L’acqua è salita velocemente, filtrando dalla porta d’ingresso del giardino ha gia inondato il porticato che è più basso… abbiamo messo delle panche della chiesa e le utilizziamo come passerella.
Sono le sei e trenta circa. Gli altri inquilini del caseggiato sono tutti alla finestra. Improvvisamente la pressione dell’acqua vince la resistenza del portoncino… è uno schianto assurdo in questo silenzio ovattato, il ruggito di una fiera… diciassette metri è la lunghezza del giardino… in fondo appare un muro d’acqua marrone… rimango con la gola strozzata… c’è mio padre ancora nella casa… urlo… mi viene da vomitare, mentre lo vedo saltare tre secondi prima che l’acqua passi repentinamente da venticinque centimetri ad un metro.
Siamo tutti ammassati sulla prima rampa di scale… ma come è possibile… questo mostro si sta mangiando gli scalini ogni cinque, dieci secondi.
Dopo mezzora siamo già al primo piano.
Ora la strada per arrivare al nostro appartamento è tagliata per tutti gli altri inquilini.
Il giardino ribolle.
Le piante in vaso sono scomparse, rimangono gli alberi.
Qualcuno comincia a piangere… si sentono i primi lamenti, lontani, più increduli che terrorizzati.
Siamo affacciati alle finestre della biblioteca del primo piano, un muro ci divide dagli altri appartamenti. Di là ci sono tre persone anziane.
Non sappiamo che fare, gli attrezzi da lavoro di mio padre a quest’ora sono un bel pezzo sott’acqua.
Improvvisamente un altro schianto, più lamentoso, come di metallo piegato, contorto, schiacciato da un peso incredibile.
E’ saltata la cisterna del gasolio, riempita giusto tre giorni fa.
Dalle cantine inizia a fuoriuscire una macchia nera, unta, densa come colore ad olio.
Nero su marrone, in ghirigori sempre più ampi… e questo freddo che ci prende ai piedi ed alla gola.
Il rombo è aumentato, l’acqua sale senza posa.
I vecchi pregano e piangono, per me è uno spettacolo terrificante: questi ci affogano sotto gli occhi, ma i grandi che fanno?
Tutti dobbiamo fare qualcosa… babbo che si fa?
Ho un mazzuolo -risponde- in quella cassa c’è una baionetta -cimelio dell’ultima guerra- in casa ci sono i cacciaviti grossi, valli a prendere, corri!
Dai, dai, svelto che bisogna sfondare questo cazzo di parete!
Questo suo pronunciare quella parola, così forte, così aspra, aumenta il mio panico, se perde la calma lui, lui che si perita a dire stupido, che potrò fare io?
Si comincia, con foga, con paura, senza metodo.
Aggrediamo il muro con disperazione.
Viene giù l’intonaco e poi appaiono i mattoni, se Dio vuole sono foratoni murati per ritto; ed allora si sfonda più che forare, ci diamo il cambio con il mazzuolo, la baionetta serve a poco.
Abbiamo aperto uno spiraglio, ma non si vede la luce, si sentono le voci, ma niente luce.
Un armadio, siamo proprio fortunati, ci mancava questa, oltre al muro c’è un armadio a separarci dai coinquilini e l’acqua è già al pianerottolo.
Si batte, s’impreca, mia zia piange, io ho mal di stomaco. Altro che esami! Qui si muore come nei film, anzi peggio che nei film.
Mi tremano le mani, anzi tremo tutto.
Abbiamo aperto un pertugio… basterà? Ce la faranno? Devono farcela, ora devono farcela.
Passano, passano, mezzi morti di paura, ma passano.
Portateli su, dategli delle coperte, dategli da bere.
Come si fa a consolare chi sta per perdere tutto?
Dobbiamo arretrare, l’acqua ci bagna le scarpe.
Guardo i libri della biblioteca: Bibbie del settecento, trattati filosofici del secolo scorso… le ritroveremo? Come li ritroveremo? E’ la prima volta che li vedo veramente, sino ad adesso facevano parte del mio mondo consueto, accessori dei miei obbligatori corsi teologici, delle mie “scuole domenicali”. Ora mi sembrano animali che si divincolano dietro i vetri della libreria: sanno di dover morire e non capiscono come noi non gli andiamo incontro.
Siamo al gradino più basso dell’ultima rampa di scale.
Noi in quel momento non lo possiamo immaginare, ma quello sarà il record raggiunto dal fiume.
Saliamo in casa e nell’assurdità della cosa iniziamo a sistemare le scale sul tetto per salire ai tetti superiori. Siamo a più di dieci metri, ma oramai la realtà si è incrinata e non ci sono più barriere ad arginare la paura.
Ora giungono distintamente, e fanno accapponare la pelle, le grida di chi sta due numeri civici più in basso verso S.Croce, case poco elevate e senza abbaini. Uomini e donne si salveranno, ma quando verranno ripescati saranno quasi del tutto assiderati.
L’acqua è un manto nero.
Il cielo è una cappa grigia.
La cancellata è stata sommersa, ora davanti a noi è soltanto un grande spiazzale nero.
Passano le auto trascinate come fuscelli, alberi, suppellettili.
Improvviso il suono della campana del Bargello, quella che si era sentita soltanto per l’entrata in guerra.
Un suono sconvolgente; la campana, fessa da un lato, al deng risponde con un dooon cupo e prolungato.
Nel cielo ancora non si è visto un elicottero, siamo soli, abbandonati in mezzo a questo cataclisma e le nostre vite non saranno mai più le stesse.
Oggi siamo morti, morti anche se sopravviveremo.
Firenze è morta e come per il Vajont o per il Polesine, tanti di noi oggi rimarranno orfani dei padri o della loro gioventù.
Oggi siamo tutti un po’ più deboli ed un po’ più vecchi.
Siamo sul tetto, quando vediamo arrivare un canotto microscopico con un vigile del fuoco. Urla per vincere il fragore della corrente… capiamo che chiede se abbiamo bisogno d’aiuto e nel frattempo si avvicina pericolosamente alle punte di lancia della cancellata, sommerse da poco più di dieci centimetri d’acqua.
Via… vattene… si fora il canotto… non capisce, anzi si avvicina per comprendere meglio.
Ci sgoliamo… va via… va via… hanno bisogno all’angolo, noi no…
Finalmente si lascia trasportare dalla corrente e scompare dal nostro orizzonte.
Passa un’Ape capovolta e non lo travolge per una manciata di secondi.
E’ passata l’ora di pranzo e quella della merenda.
Che parole strane oggi.
E’ buio, tutto è buio.
I telefoni si sono ammutoliti sin dalla prima mattina.
Forse l’acqua non sale più.
Un elicottero volteggia sulle nostre teste, sono le quattro del pomeriggio.
Salgo e scendo le scale per andare a controllare l’avanzata del fiume. Mi casca la pila nell’acqua, mio padre mi farà una sfuriata, infilo il braccio in quella melma nera e maleodorante: è fredda come mai ho sentito l’acqua fredda.
Il livello è stabile, anzi inizia a decrescere, forse stanotte riusciremo a chiudere un occhio.
Nel buio, alla luce delle candele ci accampiamo.
Domattina riusciremo a ricominciare? E Firenze come sarà?
Ed il magazzino del babbo, il bar dove lavora mamma ed il mio mondo esisteranno ancora?

Il giorno dopo è come il giorno prima, ma non c’è più l’acqua, c’è il fango… tanto fango.
Fine come limo, sporco come la notte, segnerà le facciate delle case per anni, spesso per un intero decennio. Segnerà e sporcherà anche tutti noi, che torneremo a lavarci adeguatamente i corpi soltanto in estate, ma che non smacchieremo mai più la nostra anima.
Proviamo a scendere, ma non è facile.
Le scale sono ricoperte di mota, lurida e scivolosa.
Puliamo alla bene e meglio mentre scendiamo.
Il giardino non esiste più.
Solo due alberi sono ancora lì, neri come la pece, agonizzanti.
Abbiamo un solo paio di stivali e spalare questa melma appare impossibile senza attrezzi. Fuori ancora non si muove niente.
Nel cielo tornano a volare gli elicotteri militari. Ci sembra un ronzio fastidioso ed inutile.
Abbiamo già sete. Siamo tanti in casa mia ed abbiamo soltanto due bottiglie d’acqua minerale.
Sembra impossibile, ma siamo già precipitati in piena preistoria.
Rimarremo poi per mesi senza acqua corrente.
E da quel giorno Firenze berrà soltanto minerale.
Durante quella lunga giornata circolarono soltanto i mezzi anfibi dell’esercito e così fu il giorno di poi.
Il terzo giorno, come nostro Signore, provammo a resuscitare e seppure con non poche difficoltà, cominciammo a farci un’idea della realtà.
La Firenze del tre novembre non esisteva più.
Non esistevano più neppure i fiorentini che quella città avevano vissuto.
Ora c’era una massa cenciosa, sporca, disperata che iniziava a cercare di recuperare le parti disperse della propria vita. Ma quegli uomini e quelle donne inzaccherati, infagottati in panni dai colori oramai improbabili, che camminavano come ciechi cercando di non cadere, fecero vedere al mondo -e se questa è retorica, retorica sia- che si può riconquistarsi il diritto a vivere, anche quando tutto sembra destinato a perdersi.
Non dico che non piangemmo, al contrario lo facemmo spesso e con rabbia, ma la voglia d’essere più forti di questo maledetto destino ci fece imbracciare pale e picconi e bestemmiando, come nessun altro al mondo sa fare, decidemmo che volevamo tornare ad essere esseri umani.
Il mondo ce lo avrebbe riconosciuto anni dopo, quando per noi oramai questo non significava più niente.
Anche io misi fuori la testa dalla tana.
In Piazza S.Firenze arrivavano le autobotti dell’acqua potabile e si doveva andare a fare la fila per riempire le taniche. In Palazzo Vecchio iniziò la distribuzione della pasta, del pane e della farina.
Tutte queste incombenze spettarono a me.
Il ricordo è quello di un mondo crepuscolare.
Novembre già di per sé non si distingue per irraggiamento solare, figurarsi poi che luce potevamo avere in quelle giornate piovose, in assenza di corrente elettrica, con le strade già alle cinque del pomeriggio illuminate dalle fotoelettriche dell’esercito, almeno nel perimetro adiacente a piazza della Signoria.
Quei giorni, nel ricordo, sono tutti uguali nella loro diversità.
Più mi allontanavo da casa più si rinnovava la scoperta della nostra rabbiosa desolazione.
Dalla periferia risparmiata cominciarono ad affluire verso le zone maggiormente colpite i parenti, che recavano viveri e generi di prima necessità. A darci un aiuto arrivarono da noi sin da Udine, dove avevamo lontani parenti.
Sui loro volti angosciati riconobbi la nostra disperazione, come anni più tardi, era il 1976, sarebbe successo a noi visitando loro a Gemona o Tolmezzo, rase al suolo dal terremoto.
Firenze era stata seviziata, stuprata, violentata ancora una volta come nel passato era già accaduto.
Questa non era più, però, la città medioevale o quella rinascimentale, questo era il museo a cielo aperto che la moderna società contemporanea mostrava orgogliosa ai turisti di tutto il mondo. E da tutto l’emisfero giunsero quelli che sarebbero stati definiti gli Angeli del Fango, migliaia di giovani, italiani e non, che si prodigarono per mesi, cercando di salvare quante più opere d’arte fosse possibile.
Ma Firenze non è soltanto gli Uffizi, S.Croce, le chiese ed i musei, ma anche i grandi mercati della carne, della frutta e verdura, le mille botteghe di alimentari che ancora allora esistevano. Quei luoghi iniziarono ben presto ad ammorbare l’aria: a S.Lorenzo l’esercito usava i lanciafiamme, tonnellate di carne si andavano putrefacendo e quell’odore nauseabondo si legava intimamente a quello dei fanghi che, lentamente, andavano asciugandosi.
Dapprima giravamo con le mascherine distribuite dalle Forze armate… poi ci abituammo.
Mio padre tornò ad essere un reduce di guerra: la violenza delle acque aveva travolto il magazzino ed il contenuto era pressoché inservibile. Mia madre iniziò a ripulire il grande bar e molte confezioni finirono sulla nostra tavola… d’altra parte niente bar, niente salario.
Lo Stato, dopo non poche titubanze, avviò la macchina degli aiuti.
A poco a poco le cose così iniziarono a migliorare e l’umore della gente cominciò a risalire la scala dei valori.

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sabato 9 aprile 2005

Incubi veri e falsi

Improvvisamente alzo la testa.
Ho una strana sensazione.
Un senso di apprensione che lentamente si sta sviluppando, quasi fosse un presentimento.
E più metto a fuoco, più l’inquietudine cresce.
In un primo momento ho avuto soltanto una scossa, un colpo di frusta che mi ha percorso tutto il corpo per finire alla gola, come quando un’emozione ci coglie alla sprovvista, troppo intensa per venire metabolizzata all’istante.
Ora ho anche un po’ paura.
Almeno credo.
Diciamo che sono pervaso da qualcosa di più di una sana apprensione.
Non vedo nessuno davanti e neppure alle spalle, ma quello che più m’impressiona è che non c’è nessuno neppure ai lati.
Insomma, non dico che debba per forza esserci una folla festosa, magari neppure passanti incuriositi, ma almeno qualcuno che faccia i fatti propri sarebbe anche lecito aspettarselo.
Invece niente, eppure il percorso è questo, tant’è che è pure segnato e la striscia rossa al centro della strada prosegue ben oltre il mio sguardo.
Comincio a rallentare.
Cercherò di correre sul posto, oramai ho rotto il fiato e se mi fermo rischio di ritrovarmi con il fiatone e le gambe molli.
In verità mi sento già un po’ stanco, eppure non mi sembra di avere percorso troppi chilometri.
Consulto il cardiofrequenzimetro: tutto a posto.
Il cronometro si è fermato: lo sapevo che dovevo cambiare quella maledetta batteria.
Mi viene da pensare che possa essere una buona metafora della condizione dell’uomo moderno: quando meno te lo aspetti ecco che l’energia si esaurisce e ti lascia a chiappe scoperte.
Comincio ad intravedere qualcuno lontanissimo alle mie spalle. Lo aspetterò almeno sino a quando non vedrò il numero della sua pettorina e poi, giuro, riparto come una scheggia.
Ce ne sono addirittura due; si avvicinano e comincio ad intuire i loro numeri.
Il primo ha il 25867 ed il secondo il 16002.
Questi erano quasi in fondo, io ho il 1312.
Mamma mia come sono scoppiati; dallo sforzo sembrano quasi dei vecchi.
Guarda quello che pancetta.
Corridori della domenica.
E quell’altro: quattro peli sulla testa; ma che oggi fanno correre soltanto i vecchietti?
E quelli “forti” dove sono finiti? Sarà la solita tattica del “vai vai che poi ti riprendo e ti lascio piantato lì”.
Però anche queste strade mica le riconosco; eppure ero venuto a fare una ricognizione questa notte con un amico che segnava il percorso.
Mah, dipenderà dal fatto che di giorno tutto appare diverso; fra l’altro il tempo non è neppure un granché!
Però i palazzi ondeggiano un po’ sfumati e questo oltre a non essere bello non è neppure troppo normale.
Sono ripartito e sono di nuovo solo.
Questa cosa comincia ad essere opprimente.
Insomma ero venuto per divertirmi e magari vincere una medaglietta; quelle che fanno per gli sciagurati come me che pagano e che vanno accontentati altrimenti non ritornano.
Quelle medagliette in similoro con scritta la data e magari “Classificato nella seconda edizione della gara podistica Un futuro Migliore”.
Però, che crisi.
Quella fermata mi ha creato problemi di respirazione, accidenti.
Il frequenzimetro ha cominciato a fare bi bi bi ed anche questo non va proprio bene.
Mi sento un’oppressione qui sul petto come se fosse scesa una mano gigante da questo cielo plumbeo.
Va a finire che mi fermo.
Va a finire che smetto di respirare.
Va a finire che qui ci lascio le penne e poi vorrei sentire tutti i commenti sullo scemo che va a correre e poi non si è neppure allenato e magari ha preso anche delle porcherie ché questi scemi della domenica si vogliono sempre mettere in mostra.
Buio, ora è tutto buio.
Madonna che angoscia!

Mi sveglio di colpo tutto sudato, in gola un acido che brucia e non mi fa respirare.
Mi alzo di scatto, non so neppure da che parte del letto sono e così batto violentemente nel tavolinetto. Non sento niente, preso da questo strano soffocamento.
“Respira con il naso, come quando bevi in mare e ti sembra di morire”. Me lo dico e lo faccio e la situazione lentissimamente inizia a migliorare.
Poi comincio a tossire e mi viene voglia di vomitare.
Ma che cavolo mi sta succedendo?
C’era un sogno, mi pare; una cosa strana con me che correvo ed ero solo e tutto era strano ed angoscioso.
Vado in bagno, mi sciacquo la faccia, bevo un po’ d’acqua, tossisco ed il panico tende a zero.
Avrò mangiato troppo o troppo poco, adesso non ricordo.
Mi rimetto a letto, il sonno se n’andato; già ho difficoltà di mio, figurarsi adesso.
Allora tra un colpo di tosse e l’altro mi metto a pensare, attendendo che il bruciore alla gola si attenui e torni il sonno.
Pensieri aggrovigliati; quelli che si fanno alle due di notte quando ti svegli con l’anima pesta e la testa istupidita.
Mi viene da pensare -chissà poi perché!- all’elezione del nuovo papa, al suo sorriso e a quegli occhi da Gatto Silvestro, a quel grido ritmato dalla folla, quel “Be-ne-det-to-Be-ne-det-to!” che riporta ad altre piazze ed ad altri balconi, anch’essi romani.
Penso che il videoregistratore è rimasto acceso e che dovrei alzarmi di nuovo per spengerlo e la cosa mi pare più faticosa che salire a piedi sulla Torre Eiffel.
Penso alla mia squadra di calcio che sta sprofondando verso la serie cadetta ed a me che non vorrei occuparmene e che invece sono sempre con un occhio ad Internet.
Penso a mio figlio che è di là che dorme e che magari ha gli incubi per lo stesso motivo.
Per la squadra intendo, non per il Papa.
Penso che ieri ho incontrato una ex insegnante di mio figlio, che mi ha ricordato quanto lui fosse già maturo, per certi versi, sin da quegli anni. E questo mi fa riflettere sul fatto che invece io vorrei tornare indietro e ripercorrere la vita, perché mi sento un po’ingannato dal destino, o meglio, dalle mie scelte oltremodo sbagliate, almeno sotto certi punti di vista.
Sarà la nemesi storica, ma mi ritrovo a fare come mio padre anche in questo.
E poi sarà pure una combinazione, ma quello stupido sogno (che non era riuscito neppure ad essere un incubo serio), si adatta perfettamente alla mia situazione.
Effettivamente negli ultimi tempi penso spesso a questa questione, dunque l’inconscio deve entrarci poco.
Rimugino specialmente sul mio percorso ideale, politico; perché passati i cinquanta un po’ di ansia viene.
Dove sono finiti tutti quelli che avevo accanto allora?
Si, insomma, a parte quelli che sono finiti a fare i dirigenti in Comune alla Regione alle Ferrovie in qualche partito eccetera, tutti gli altri, i signori nessuno come me, che fine hanno fatto?
Eppure dagli anni sessanta in poi, siamo stati più o meno tutti marchiati da quegli avvenimenti, tutti abbiamo respirato quell’atmosfera e tanti di noi hanno fatto nelle strade e nelle piazze le loro esperienze più importanti.
Noi eravamo lì ed anche non volendo quegli anni li abbiamo vissuti e sofferti.
Il guaio è che a quanto pare oggi al “nemico” non necessita più neppure del sano revisionismo: tutto è già dimenticato, o spesso peggio, mitizzato.
Alla fine abbiamo prodotto un sacco di icone, utili soltanto per essere commercializzate. Forse per tanti è stata una rimozione necessaria a mantenere un equilibrio psicologico o forse è semplicemente normale dimenticare quando le cose cambiano. Io, al contrario, ho voglia di ricordare, ho voglia di ripercorrere quegli anni e quelle sensazioni, nella consapevolezza di poter richiamare alla memoria quel lungo periodo con l’ottica privilegiata di chi l’ha vissuto dall’interno. I ricordi posso farli iniziare, per esempio, da quel novembre ‘63, ipotetico anno d’inizio della mia formazione politica.
Quello fu l’anno in cui Kennedy cadde sotto i colpi di Oswald (che dopo quarantotto ore avrebbe fatto la stessa misteriosa fine) ed in quell’anno l’unica cosa che conoscevo della politica nostrana era il simbolo del PSI, partito al quale mio padre dava la sua preferenza.
Era il periodo del primo Governo di centrosinistra, che creò non pochi problemi proprio in casa socialista, tant’è che già l’anno successivo il partito pagava questa partecipazione con la scissione: nasceva il PSIUP, al quale quasi subito mio padre aderì.
Io ero un qualsiasi ragazzino che approdava alle medie inferiori e vivevo in un mondo in cui l’informazione, per come la concepiamo oggi, era del tutto inesistente. Pochi i giornali ed ancor meno i lettori, un canale televisivo e due stazioni radiofoniche.
Degli avvenimenti di quegli anni sentivamo parlare a casa o al bar della Casa del Popolo.
I fatti di cronaca per noi ragazzi erano lontani come le zone geografiche che interessavano, come quando nel 1961 gli statunitensi sbarcarono alla Baia dei Porci, tentando, senza riuscirvi, di invadere la Cuba di Castro; l’anno dopo scoppiava la crisi dei missili e Kennedy poneva l’embargo all’isola.
Il 1963 fu, anche, l’inizio di quel conflitto in Vietnam che avrebbe cambiato buona parte del mondo dell’epoca, infiammando le generazioni dei ventenni d’ Europa e d’ America.
Nel frattempo nel 1960 erano nati i Beatles e la Loren vinceva l’Oscar. Ma nessuno di loro, ovviamente, poté impedire che nel ’62 fosse costruito il muro di Berlino.
Sempre nel 1962 moriva suicidata Marilyn Monroe e nascevano i Rolling Stones, l’Algeria proclamava l’indipendenza dopo una sanguinosa guerra nazionale ed in Italia moriva (ancora oggi misteriosamente) Enrico Mattei, presidente dell’Eni.
Ma il ’63 non è soltanto l’anno della mattanza statunitense, è anche quello della grande marcia per i diritti civili che Martin Luther King guidò a Washington.
Purtroppo, nello stesso periodo, nell’Italietta pressappochista, il crollo della diga del Vajont faceva contare 1440 morti, uccisi dall’ingordigia del rampante capitalismo italiano.
L’anno dopo, nel 1964 io ero, ovviamente, lo stesso dell’anno precedente.
Il volano del mondo iniziava a prendere velocità, ma io mi limitavo a fare il bravo studente ed a cercare di rimanere tra i primi della classe, e questo nonostante odiassi la scuola con tutte le mie forze.
La disponibilità poi dei miei, che fiduciosi si affidavano alla mia presunta maturità, mi metteva proprio in crisi.
Io cominciavo a scrivere le prime poesie, stimolate dagli amori e dalle delusioni, come, d’altra parte, accade più o meno a tutti a quell’età.
Alle medie inferiori, si sa infatti, che le bambine diventano presto ragazze, mentre i maschi, nella maggior parte dei casi, rimangono in un buffo stato intermedio sino alle prime classi superiori, quando i loro ormoni, finalmente, hanno la meglio sul calcio e la vergogna.
A questa regola fanno eccezione quei pochi che oltre a sembrare già adulti, iniziano anche a ragionare come tali.
Io ero un’eccezione nell’eccezione: sembravo un bravo bambino, ma avevo gli stimoli di un sedicenne.
Questo creava non pochi problemi, perché ero attratto dalle ragazze a cui piacevano, inevitabilmente, gli sportivoni di bella presenza.
Onde per cui, lentamente, compresi che dovevo trovare qualcosa che mi rendesse, se non affascinante, almeno interessante agli occhi di quelle ragazze.
L’unica cosa che viaggiava lievemente sopra la media era il cervello e lì mi attaccai. Gli altri le portavano alle partite di pallone o ai giardinetti? Io dovevo “stupirle” ed ecco così le visite al museo della Specola, alla Cupola del Duomo o al Campanile di Giotto, i sentieri segreti di Boboli o i panorami di S.Miniato a Monte.
Non tutte erano interessate, ma qualcuna ne veniva attratta.
Firenze mi aiutava ruffiana e le scoperte non finivano mai.
Il ’65 si apre con l’arresto di M.L.King e l’assassinio a New York di Malcolm X. Il cinema italiano ci regala due perle: I pugni in tasca di Bellocchio e La battaglia di Algeri di Pontecorvo.
Dopo giorni d’ansia sostengo i miei esami di terza media.
Penso al futuro prossimo: sarei tentato dal liceo, ma viste le mie titubanze i miei mi avviano (con un interiore sospiro di sollievo) verso l’Istituto Tecnico.
Mai scelta si rivelerà più sbagliata.
All’inizio del 1966 il mondo avverte i primi segni del cambiamento epocale che di lì a poco lo travolgerà: in Cina inizia la rivoluzione culturale e Mao, da bravo stalinista, inizia l’eliminazione dei propri avversari politici.
Negli Stati Uniti nasce il movimento dei Black Power, che nel ’68 ci darà la soddisfazione di vedere due atleti americani di colore salire sul podio olimpionico a piedi scalzi, testa bassa e pugno alzato . Un gesto coraggioso che segnerà la loro vita, oltre a fargli perdere medaglia e primato. Soltanto oggi, A.D.2005, qualcuno si è ricordato di loro, innalzando un monumento che li immortala nel fatidico gesto.
In Italia nel 1966 iniziano le prime contestazioni studentesche, ma io sino al tre novembre sono troppo occupato a sopravvivere ad aggiustaggio e disegno tecnico per avere il benché minimo rapporto con la realtà.

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